I libri sono come la frutta. Come i vitigni, come gli ulivi. Hanno bisogno del clima giusto per nascere e germinare. Senza condizioni ambientali favorevoli, non potrebbero essere pensati né scritti. Immaginate questa scena. Si svolge a Buenos Aires in un giorno di primavera. L’anno è lontano, sempre più lontano da noi: 2010. Due donne si sposano. Un corteo festoso le accompagna. Ci sono amici, militanti, parenti. C’è un figlio. Le due donne possono unirsi legalmente grazie alla legge de Matrimonio Igualitario fresca di promulgazione, un passo avanti importante per i diritti civili in Argentina, ultima tappa di una stagione che ha liberato il Paese dalla paura.

È il tempo di Nestor Kirchner e sono successe un mucchio di cose. Si sono riaperti i processi ai militari carnefici della dittatura (1976-1983). Migliaia di processi e condanne. La militanza della memoria è diventata un punto fermo del discorso pubblico argentino. I diritti civili sono finalmente riconosciuti. Appunto: due donne si sposano. Una festa. Ma quello stesso giorno di ottobre, nella capitale, si celebra una cerimonia di sentimento opposto. Un corteo funebre attraversa la città. Il presidente Kirchner, 60 anni, è morto all’improvviso. La moglie ed erede politica ne accompagna la salma nei funerali di Stato.

Una delle due spose è la scrittrice e attivista Marta Dillon, e racconterà questa giornata in una pagina del suo memorabile Aparecida, libro pubblicato nel 2015 e, in Italia, nel 2021 dall’editore Gran vía. Aparecida è un testo importante, ma non sarebbe stato possibile senza il clima giusto. Senza la stagione sociale esplosa sullo sfondo politico del kirchnerismo non solo non avremmo letto le pagine di Dillon, ma la stessa autrice non avrebbe potuto vivere le esperienze poi raccontate: dalla scoperta dei resti della madre desaparecida, rinvenuti grazie all’impegno degli antropologi forensi, al matrimonio con la propria compagna.

Quindi vale la pena di ripeterlo: i libri germogliano nel clima propizio. Ma in Argentina il clima è cambiato. Bruscamente. Per i diritti e la memoria è arrivato un gelido inverno, e non sappiamo quanto durerà. Quali libri nasceranno nell’Argentina di Javier Milei, il presidente che ospita sotto la propria ala individui che hanno posizioni apertamente negazioniste rispetto alla storia argentina? Il capo di un esecutivo che promette tagli al finanziamento delle politiche della memoria e agli organismi che difendono i diritti umani?

Lasciamo in sospeso la risposta. Per ora sappiamo questo: che la libertà di parola già viene meno. Cito un episodio sintomatico fra i tanti. A fine febbraio la televisione pubblica argentina ha cancellato il programma Madres de la Plaza. Andava in onda da 16 anni, era uno spazio di informazione autonomo gestito dall’organizzazione fondata da Hebe de Bonafini. Con un’espressione sul volto di falso candore, il portavoce della presidenza della Repubblica, Manuel Adorni, ha commentato così: «È straordinario che il programma sia scomparso». Ha usato proprio questa parola, «desaparecido», non saprei dire se con un’intenzione più di oltraggio o di scherno.

L’Argentina – ce lo spiegano gli stessi argentini parlando del loro Paese – è sempre stata attraversata da una grieta. Una crepa, una faglia che la divide. Peronisti contro antiperonisti, militari contro oppositori, kirchnerismo e antikirchnerismo. Ora questa grieta sembra più ampia che mai. O forse con Milei siamo oltre. Come ha spiegato Washington Uranga su «Página 12», siamo a un presidente che mira alla «demolizione totale e assoluta di una parte della storia argentina. (…) Tutto ciò che si oppone a lui (reale o simbolico) deve essere distrutto, demolito direttamente. Norme, principi, diritti, cultura… tutto, semplicemente tutto». Questo è il clima. Dalla repubblica della memoria alla dittatura dell’oblio. E domani è il 24 marzo, ricorrenza del Golpe. Il giorno del ricordo argentino. Per la prima volta sotto il regno di Milei. Sarà un’occasione per contarsi.

È successo anche a me, si parva licet, di scrivere un libro figlio di un clima. Proprio un libro argentino. Un romanzo nato e cresciuto nella stagione della memoria. Perché l’ho fatto? Un innesco potrebbe essere questo. Nel 2003 mi trovavo nella regione di Misiones. Nordest dell’Argentina. Tra i ruderi degli insediamenti gesuitici seicenteschi e il Paraná. Terra rossa, banani, la casa museo dello scrittore Horacio Quiroga (il cui famoso Decalogo del perfetto scrittore di racconti non ho mai saputo rispettare come si deve). Ero in un bar. Alzai gli occhi verso il televisore acceso e vidi Kirchner intervenire al Congresso. Spronava i parlamentari ad abolire le leggi di amnistia e impunità che proteggevano dalla giustizia i criminali della dittatura. Quelle leggi furono effettivamente abrogate e cambiò tutto. Anche nella mia piccola vita, per un po’.

Un altro innesco: non ero immune dalla storia argentina. Negli anni Settanta la mia famiglia aveva dato accoglienza a una ragazza di Buenos Aires, fuggita poco prima che scoppiasse il Golpe. Era stata con noi alcuni mesi. Da qualche parte ho una foto di noi due al mare, io con i braccioli e lei che rema, ripresa di spalle. Forse si volta per un sorriso, immagino verso mia madre che scattava la foto. Non ricordo. Questa ragazza sarebbe presto partita verso altre mete. Madrid, Città del Messico, Barcellona. Ma non avremmo perso i contatti. Le avevamo offerto un’accoglienza non rara, per una famiglia italiana e di sinistra, in quegli anni rigogliosi di dittature fasciste, sia in Sudamerica che in Europa, e quindi di vittime ed esuli.

Terzo innesco: diversi anni dopo (verso la fine degli anni Ottanta) avrei conosciuto un tipografo argentino, Giovanni Miglioli, anche lui esule a Roma, senza il quale il romanzo di cui sto parlando non sarebbe stato possibile. Giovanni era già un personaggio da romanzo, non c’era bisogno di scrivergliene uno addosso. Nei primi anni Duemila, col vento che cambiava in patria, la comunità di esuli argentini a Roma divenne ancora più vitale e combattiva. Si aprì una stagione di militanza della memoria (e di processi) nella quale Giovanni fu protagonista. A margine (a me) Giovanni raccontò decine di storie, fornì libri, materiali, documenti, contatti. Tra un’empanada e un bicchiere di rosso. Tra una partita dell’Argentina guidata dalla sua stella nascente, Lionel Messi, e un convegno o la presentazione di un libro.

Ero arrivato a conoscere bene la storia della militanza di sinistra e della repressione in Argentina. Avevo iniziato a lavorare al mio romanzo nel 2003. E poi nel 2004, con un nuovo soggiorno di ricerche in Argentina. E poi per molti anni ancora. Immaginai una storia novecentesca tessuta in una rete di esilii, dall’Italia all’Argentina e poi dall’Argentina all’Italia; e una squadra di personaggi, tutti accomunati dall’essere sopravvissuti al potere dell’economia (alla schiavitù della povertà) o della dittatura. Accanto ai personaggi e alle loro storie bisognava poi incidere nomi che fossero verosimili e belli. Non so se mi riuscì. Ma li elenco qui come su una piccola lapide (spero che mi perdonerete questa debolezza): Paride Sanchis, Ximena Sanchis, Aurora Maturáno, Diego Wilchen, Arturo Coloccini, Matilde Famularo, Johnny Tossi. In alcuni di questi interpreti ho cercato di incarnare dei vinti non vinti, sopravvissuti, memori e quindi vincitori, poiché non assassinati. In altri ho trasferito un sentimento di indignazione e rabbia che spesso mi fa camminare quando entro nei territori della storia novecentesca.

Il romanzo, Stati di grazia, sarebbe uscito nel 2014. Esattamente dieci anni fa. Allora ero intimorito dal giudizio degli argentini romani e non lo feci circolare troppo. Miglioli però un giorno mi telefonò per dirmi che gli era piaciuto. In realtà mi chiamò per dirmi due cose. La prima, che aveva letto il libro. La seconda, che si era ammalato. «Mi è venuta la stessa malattia di tua madre», disse, e lo ascoltai muto, al cellulare, paralizzato sebbene camminassi su una di quelle strade provvisorie e deserte, nel tardo pomeriggio, che limitano il confine tra la stazione Termini e il quartiere universitario.

Giovanni sarebbe morto poco tempo dopo, il 24 marzo del 2016. Allo scoccare del quarantesimo anniversario del Golpe, l’evento che aveva cambiato la sua vita trasformandolo in un esule, e alla cui memoria aveva dedicato gran parte delle proprie energie. Lo salutammo alla Casa della Memoria di Roma, in una cerimonia gremita e commossa.

Sopra ho accennato all’indignazione e alla rabbia; aggiungo un’altra parola: risarcimento. Sono alcuni dei sintomi che scaldano il termometro della mia malattia storica. Nessuna nostalgia, nessuna malinconia. Molta perplessità. Il Novecento mi appare come un tempo pieno di insidie, e genitore di quasi ogni problema odierno. Forse mi sbaglio. Forse esagero. Devo ammetterlo: soffro di una dipendenza dalla memoria di traumi storici. Anche quelli non miei. Credo sia una patologia tipica della mia generazione, di coloro che hanno transitato tra due epoche. Sono nato in un secolo del quale ho fatto a tempo ad avere piena coscienza. Adesso abito per un po’ un nuovo millennio. Di conseguenza cammino nel mio tempo (passato, presente, futuro: l’intera scorta concessami) tenendo un occhio sulla fronte, per vedere dove avanzo, e un occhio sulla nuca, per vedere il ricordo di ieri.

Questo intenso rapporto con la storia riguarda molte scrittrici e scrittori che hanno condiviso un concime generazionale. Se metto insieme alcuni nomi, non tutti, vi accorgerete del loro rilievo: Olga Tokarczuk, Georgi Gospodinov, David Peace, Mathias Énard, in Italia Helena Janeczek, Antonio Scurati. Solo per citarne alcuni. Non può essere un caso che molti autori, soprattutto europei, nati tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento condividano una postura: un rapporto molto accurato, quasi ossessivo, con le fonti e la storia; e un dialogo serrato tra documento storico e invenzione. Forse camminare nel tempo con un occhio sulla fronte e uno sulla nuca è molto più frequente di quanto io creda.

Chiudo l’inciso e provo a riprendere la domanda che avevo lasciato in sospeso sopra. Quali libri nasceranno nell’Argentina di Milei? L’avvento di questo presidente serra l’ultimo sigillo sul tempo di Kirchner e dei suoi eredi politici. È un avvento così strabiliante e scioccante che per settimane ho rifiutato di prenderlo in considerazione, di ragionarci. Ed è anche un pessimo segno a livello globale: l’apertura di un nuovo laboratorio neoliberista (e populista) nell’anno delle elezioni negli Stati Uniti e nell’Unione europea. Ma lascio ad altri l’analisi politica, la spiegazione dei fatti e delle prospettive. Per quanto mi riguarda, dunque: quali libri nasceranno? Almeno su questo non penso sia il caso di essere pessimisti. Un clima diverso darà frutti diversi, ma ne darà. Nasceranno libri forse scatenati dalla rabbia, forse dal desiderio di rivalsa. Ma emergeranno ancora testi indimenticabili. L’immensa scorta di talento della letteratura argentina non ci deluderà.

Del resto, se nell’Argentina di Videla poté nascere un capolavoro come Respirazione artificiale di Ricardo Piglia, perché nell’Argentina di Milei non dovrebbe vedere la luce un libro che sogna, un libro che lotta, un libro che cambia il discorso, un libro che racconta come nessuno aveva mai raccontato prima, un libro che sbugiarda il potere, un libro che sfugge al potere, un libro che guarda il cielo e poi vola, che viaggia nel tempo, che esaudisce il futuro, che inventa sapori, che disegna colori mai visti, che innova le metafore e la punteggiatura, che conia parole e logismi, che pronuncia parole politiche senza pronunciarle, che scandisce parole memorabili senza bisogno di urlare, che ricorda il passato senza malinconia, un libro che si erge in tutta la sua forza senza mai guardare negli occhi il presidente Milei, anzi dandogli le spalle come lui ha fatto con il Congresso?

Mi correggo: non un solo libro ma più di uno. Vedranno la luce e io li aspetto.