Quando una pattuglia della polizia o un’ambulanza ci passano accanto, il tono della sirena apparentemente cambia: più acuto se la sirena si avvicina, più grave quando si allontana. Si chiama «effetto Doppler»: le onde sonore vengono prima compresse e poi allungate dal movimento della sorgente e ne percepiamo l’effetto con il cambio di tonalità.
Succede la stessa cosa con le onde luminose che ci arrivano dai corpi celesti: se provengono da una stella che si allontana, la luce ci appare «stiracchiata» con il risultato di assumere un colore più vicino al colore rosso, che corrisponde alle onde visibili più lunghe e meno energetiche.

Lo statunitense Edwin Hubble, uno degli astronomi più importanti del XX secolo, si accorse per primo che la luce di stelle e galassie è sistematicamente «spostata verso il rosso», come se stessero tutte scappando dalla Terra, e che le galassie più distanti fuggono più velocemente.
Siccome non è pensabile che tutto l’universo si allontani da noi – cosa potremmo mai avergli fatto? – la legge di Hubble è considerata la prova regina dell’espansione dell’universo: dal Big Bang a oggi l’universo non ha mai smesso di gonfiarsi come un palloncino e questo spiega come mai tutto sembra scappare da tutto. Ripercorrendo a ritroso l’espansione gli scienziati hanno calcolato che dal Big Bang devono essere trascorsi circa 13,8 miliardi di anni.

Il nuovo telescopio spaziale James Webb, messo in orbita dalla Nasa il giorno di Natale di tre anni fa per scrutare l’universo più lontano, sta però rimescolando le carte. Grazie al telescopio siamo riusciti a osservare galassie la cui luce ha viaggiato per 13 miliardi di anni prima di arrivare a noi. Questi corpi celesti, dunque, abitano l’universo appena nato. La scoperta piuttosto sensazionale è che queste galassie dell’universo neonato assomigliano molto a quelle attuali, vecchie di quasi 14 miliardi di anni, e non è chiaro come abbiano compiuto un’evoluzione così rapida in poco tempo.
Una possibile soluzione all’enigma arriva da una nuova teoria avanzata dal fisico dell’università canadese di Ottawa Rajendra Gupta sull’Astrophysical Journal, secondo la quale non è solo l’effetto Doppler (e quindi l’espansione dell’universo) a spostare verso il rosso la luce di stelle e galassie. Gupta è un fautore della cosiddetta «teoria della luce stanca» già proposta con scarso successo dal fisico Fritz Zwicky quasi un secolo fa: nel lungo percorso cosmico verso i nostri telescopi la luce perderebbe energia come un atleta affaticato, arrivando a noi più rossa di quanto fosse all’origine. La teoria prevede dunque un’espansione dell’universo più lenta e fa risalire il Big Bang a 27 miliardi di anni fa, il doppio di quanto attualmente stimato. Le galassie lontanissime avvistate dal telescopio James Webb, dunque, non si sarebbero formate poco dopo il Big Bang ma si troverebbero in un universo già maturo e per questo più simile al nostro.

A sostegno dell’ipotesi di Gupta ci sono alcune osservazioni come le cosiddette «oscillazioni barioniche», le onde acustiche che solcavano l’universo primordiale, le cui dimensioni coincidono con quelle previste dalla teoria della luce stanca. La teoria ha anche l’indubbio vantaggio fare a meno dell’ipotesi della «materia oscura», che i cosmologi non hanno ancora capito cosa diavolo sia. Ma serviranno molte altre conferme sperimentali per rendere credibile il modello cosmologico di Gupta, su cui al momento scommetterebbero in pochi. Dunque il titolo di questa rubrica per il momento non verrà cambiato.