La Comunità ebraica romana, dalla quale il 25 aprile sono partiti sassi, barattoli di piselli («morti di fame», era l’allusione) e auspici di stupro rivolti ai manifestanti pro Palestina, ieri si è unita alla solidarietà verso la ministra della famiglia Roccella, pesantemente contestata agli «Stati generali della natalità».

Lo ha fatto rivendicando una comune condizione di sofferenza: la ministra sarebbe stata vittima di «una censura inaccettabile, la stessa messa in atto in forme anche più violente nelle Università contro chi semplicemente è ebreo». Ecco dunque l’anello mancante nel nuovo ordine retorico nazionale: protestare a voce alta contro le posizioni (e gli atti) di una ministra e urlarle contro equivale in termini di gravità a essere antisemiti. Che come si sa è il marchio di infamia con il quale si liquidano e si tendono oggi a silenziare un numero crescente di posizioni politiche non conformi a quelle dominanti.

Naturalmente il parallelo tra la contestazione e l’antisemitismo è una solenne sciocchezza che fa danni innanzitutto alla serietà con cui va individuato e combattuto l’odio anti ebraico, posto che antisemiti purtroppo ce ne sono davvero, aspiranti persecutori di ebrei disgraziatamente non mancano e persecutori effettivi in patria ce ne sono stati anche troppi – peraltro nella genealogia politica di chi adesso sputa sui pro Palestina o li fa manganellare.

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Sciocco, ma molto eloquente, il parallelo della comunità ebraica romana evidenzia però in maniera scomposta ed esplicita l’ansia di scacciare dal campo delle cose possibili le opinioni difformi. Ansia contenuta praticamente in tutti i commenti che hanno accompagnato il vittimistico abbandono della platea della ministra Roccella. Una scena peraltro identica (commenti allarmati compresi) a quella alla quale abbiamo assistito giusto un anno fa a Torino e dalla quale è scaturita addirittura un’inchiesta, archiviata perché naturalmente contestatrici e contestatori di allora non avevano commesso alcuna intimidazione o violenza.

Che sia appunto la violenza il discrimine è ormai del tutto trascurato. Fischiare – pratica che era non solo accettata, ma persino incoraggiata nei partiti e dai leader politici quando erano tali – è considerato uguale a picchiare. Solo che chi ha potere, divise e manganelli picchia e chi non ce l’ha urla, fischia e contesta. Anche l’accusa di censura rivolta ai contestatori è irricevibile, visto che per essere esercitata presupporrebbe un potere che loro non hanno e che invece il governo non solo detiene ma sta anche esercitando con gusto.

Una ministra e una maggioranza che parlano quando vogliono dai giornali e dalle tv, e che soprattutto alle parole fanno seguire decisioni e atti di legge (l’ultimo quello che prova a trasformare i consultori in centri di propaganda prolife), alle contestazioni dovranno prima o poi abituarsi (e magari, fantastichiamo, ascoltarle).

Chiaro che dal punto di vista delle posizioni politiche dominanti (il che non vuol dire maggioritarie) meglio sarebbe se a chi contesta fosse impedito, non solo con la forza ma anche – prima – con la condanna sociale, di farsi ascoltare. Per questo i campus dove si chiede il cessate il fuoco a Gaza vengono raccontati come luoghi violenti quando nei documenti che producono e nei comportamenti che hanno, oltre che nelle testimonianze di chi è andato sul serio a conoscerli, sono proprio il contrario. Per questo gli studenti che vogliono fermare la carneficina di Netanyahu sono raccontati come antisemiti anche quando sono ebrei.

Crimini immensi come quello in corso a Gaza chiamano grandi risposte, e meno male, e le proteste non possono che provare a essere all’altezza. Ma le parole nelle proteste anche le più forti non sono mai armi di distruzione di massa come le bombe da una tonnellata, anche se in un disgraziato articolo di qualche giorno fa Zadie Smith lo ha sostenuto.

Se lo fossero, allora anche le bombe da una tonnellata diventerebbero solo parole. Probabilmente è quello che aspirano a farci credere gli indifendibili difensori della legittimità di Israele ad andare avanti, non tollerando che venga espressa alcuna posizione contraria né sollevato alcun dubbio.

Dalla scatola dei valori occidentali la libertà di parola è già stata tirata fuori. Ma quella scatola vuota vogliono ancora difenderla, con la guerra. Il caso Roccella non è che un altro gradino nella discesa verso il conformismo e la complicità.