I Lei entra in tribunale a Budapest in catene. Lui esce dal tribunale di Milano da uomo libero. Le vicende di Ilaria Salis e Gabriele Marchesi, accusati entrambi di aver aggredito dei neonazisti in Ungheria nel febbraio dell’anno scorso, ieri hanno restituito tutti e due i lati di una medaglia di certo ingloriosa per il governo Meloni e per la diplomazia italiana.

Salis è tornata in aula a Budapest soltanto per vedersi respingere la richiesta di domiciliari in Ungheria: una decisione ampiamente annunciata ma lo stesso bruciante. La 39enne è prigioniera da 13 mesi per accuse che in Italia sarebbero di lesioni lievissime, e l’udienza di ieri stata soltanto uno spettacolo messo in piedi per ribadire al mondo il punto di vista di Budapest su questa storia. Lo spiega bene Roberto Salis, il padre: «Qui Ilaria è colpevole per tre motivi: è donna, non è ungherese ed è antifascista»«. La situazione, del resto, era chiara da tempo. E qualora qualcuno non lo avesse capito, all’ingresso in tribunale, la folta pattuglia solidale accorsa dall’Italia (parlamentari, associazioni umanitarie, il funzionario d’ambasciata Attila Trasciatti e anche il fumettista Zerocalcare) è stata accolta dagli insulti e dalle minacce di un manipolo di neonazisti: «Zitti o vi spacchiamo la testa».

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DAVANTI al giudice Jozsef Sòs, poi, non è successo niente: era prevista l’audizione dei testi dell’accusa, ma non c’è stata per non meglio precisati «ritardi», poi la richiesta di domiciliari a Budapest è stata respinta senza tanti complimenti. «Le circostanze non sono cambiate – ha detto il giudice Sòs -, c’è sempre il pericolo di fuga». Risponde l’avvocato Eugenio Losco, pure presente in aula: «Non penso che in Ungheria ci possa essere un trattamento diverso da quello che abbiamo visto e penso che questo sia inaccettabile per l’Italia». La decisione del tribunale, comunque, è stata impugnata e se ne riparlerà il 24 maggio, «ma al momento non ci sono tante speranze che questa misura possa essere cambiata, visto l’atteggiamento del tribunale. C’è il rischio, più che concreto, che si arrivi a una sentenza di primo grado con Ilaria ancora detenuta», conclude Losco. E così, in Italia, mentre le opposizioni evidenziano quanto le attività diplomatiche italiane si siano rivelate inutili e quanto le parole rassicuranti di Tajani e Nordio – loro avevano suggerito di richiedere i domiciliari in Ungheria – siano state vane, dalle parti del governo si continua a far finta di nulla. «Il giudice sbaglia, ma non bisogna politicizzare la vicenda», detta il solito Tajani alle agenzie, anche se il problema, probabilmente, è di aver lavorato male e troppo nell’ombra invece di alzare la voce su una condizione che non dovrebbe essere accettabile in Unione Europea per l’enorme sproporzione tra fatti contestati e pena prospettata (fino a 24 anni di reclusione), per le condizioni scandalose delle prigioni ungheresi e per il deplorevole spettacolo di un’imputata che entra in aula incatenata e al guinzaglio, peraltro una consuetudine nel sistema ungherese.

I ceppi ai piedi di Ilaria Salis durante una udienza al tribunale di Budapest
I ceppi ai piedi di Ilaria Salis durante una udienza al tribunale di Budapest, foto Ansa

È SULLA BASE di queste evidenze che la Corte d’appello di Milano, sempre ieri, ha negato all’Ungheria la consegna di Gabriele Marchesi. Anche qui siamo in presenza di una decisione che era nell’aria da tempo. Il pg Cuno Tarfusser si era già più volte espresso contro l’estradizione del giovane, e lo ha ribadito anche durante l’ultima udienza: «L’Ungheria è uno stato che ha abbandonato, si è allontanato dall’idea e dai principi giuridici che stanno alla base dello spazio unico europeo». Poi, nel merito, il mandato d’arresto europeo a carico di Marchesi secondo il procuratore «viola il principio di proporzionalità», perché «la pena proposta sta tra i 2 e i 24 anni è per lesioni potenzialmente letali, quando ci sono 5 giorni di prognosi». Dopo una breve camera di consiglio, i giudici Monica Fagnoni, Stefano Caramellino e Cristina Ravera hanno detto una volta per tutte no alla consegna di Marchesi, ordinandone anche l’immediata liberazione (era ai domiciliari da novembre). Nella sua sentenza il collegio ha fatto presente che il «giovane è dotato di fissa dimora, sconosciuto alle carceri italiane, incensurato, si è sempre presentato in udienza e un inserimento in carcere anche temporaneo sarebbe percepita come particolarmente degradante», anche perché il processo potrebbe andare per le lunghissime e la detenzione preventiva potrebbe arrivare addirittura fino a tre anni.

LA CORTE aveva inoltre chiesto all’Ungheria se ci fossero i presupposti per concedere a Marchesi misure alternative al carcere, ma «la riposta estera ha negato ogni possibilità di misure meno coercitive» e questo evidenzia «seri pregiudizi» nei confronti dell’italiano. Da qui il respingimento del mandato d’arresto europeo. Alla lettura della sentenza, Marchesi ha abbracciato un amico presente in aula, si è dichiarato «contento» davanti ai cronisti e poi, consigliato dal suo avvocato Mauro Straini, è corso a casa ad aspettare la notifica dell’atto che fa di lui una persona nuovamente libera. La conclusione è di Straini: «Voglio escludere che questa decisione possa in qualsiasi maniera possa influenzare il processo a carico di Ilaria Salis. È un dovere inderogabile, verificare il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Questa è una garanzia alla base del sistema democratico». Del sistema democratico, appunto. Non dell’Ungheria.