Era Schlegel, Friedrich, a ritenere superfluo scrivere un nuovo romanzo se nel frattempo l’autore non fosse diventato un uomo nuovo. Aggiornato, il pensiero potrebbe suonare così: la scrittura di qualunque cosa che sia assimilabile a un romanzo non dovrebbe avere sempre un po’ a che fare con un bilancio esistenziale? Sembra essere questo, almeno, un criterio che ha guidato Cristiano Dorigo nella composizione di Acque alte, da poco uscito per i tipi di Meligrana (pp. 170, euro 15).

Attivo da anni nell’editoria con testi propri, curatele e iniziative collettive, Dorigo lavora da trent’anni come operatore sociale a Venezia, e la sua utenza da oltre un paio di decenni è composta da ragazze minorenni con alle spalle abusi, traumi, situazioni di disagio. È un lavoro che, giocoforza, porta a contatto con il dolore nelle sue forme più inscalfibili e ingiuste, che affondano nelle relazioni familiari, quelle che dovevano proteggere e invece hanno tradito e violato.

TUTTAVIA, come nota Emanuele Pettener nella postfazione, volendo rendere alle ragazze un riconoscimento affettuoso Dorigo si è guardato bene dal fare delle loro vite il materiale di una denuncia d’autore, di quelle che nutrono la vanità del denunciante. Ha scelto invece la via del pudore e, assegnando ad alcune di loro altrettanti nomi di fiori, ha puntellato con le loro storie una vicenda che è soprattutto personale, e che affonda nella perdita. Ne è venuto fuori un libro che ibrida omaggio e introspezione, e che rinuncia ai trucchi a tal punto che l’unico trucco, di cornice, ci guadagna in verosimiglianza: il testo, infatti, prende forma durante una settimana di acqua alta senza precedenti a Venezia, nell’appartamento in cui l’autore si ritrova rinchiuso. Dorigo ne approfitta così per confrontarsi anche con il tema della calamità e i suoi risvolti collettivi, sociali e social, ma senza mai perdere il filo principale, che è quello di una resa dei conti con se stesso.

In un primo momento sono le ragazze a farla da protagoniste: Amaryllis, che è soglia testuale e dichiara «Certe volte vorrei avere voglia di vivere», sua sorella Bucaneve e poi, a clausura iniziata, Dalia che accumula piccoli affetti per averne uno grande e la gracile Genziana, che non ce la fa per partito preso, sono le più vivide della ghirlanda. La casa dove l’autore trascrive le loro voci, d’altra parte, è quella dove i suoi genitori hanno vissuto fino all’ultimo giorno, un luogo-matrice che, circondato dall’acqua che sale, assume presto un che di «amniotico», in cui ad affondare sono le certezze. La notte lagunare diviene dunque il cronotopo in cui riattraversare i propri lutti – il padre, uno zio caro, la madre – e imparare a lasciar andare il passato con l’ausilio delle storie rimanenti: l’innesco è di Margherita, secondo la quale «“chi sono io” è la domanda senza risposta della vita», mentre Primula e Ninfea sbiadiranno l’una nel ricordo mediato del padre, l’altra in una ricostruzione autoriale in cui non si riconosce.

FRATTANTO la domanda del narratore su di sé, che giorno dopo giorno si è riflessa nello specchio del bagno e nell’uso reiterato del verbo essere in forme intransitive od ontologiche, approda alla paternità. Il pensiero della figlia, e del «lutto» di una separazione, prelude così alla virata di un uomo che, in procinto di ripartire, giunge a sognarsi pure madre gravida. Ringraziati gli altri fiori del giardino interiore, non rimane che un’ultima bufera a mondarlo, mentre resta il punto fermo delle relazioni: di queste siamo fatti, e di perdono, se cresciamo, e alterniamo pienezza e mancanza.

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Il 10 maggio, al Salone del libro di Torino (Pad.Oval, ore 17.30), l’autore sarà in dialogo con Caterina Schiavon e Elisabetta Tiveron.