Periodicamente il governo, in particolare per voce del ministro Giorgetti, denuncia l’insostenibilità del superbonus edilizia approvato per la prima volta dal secondo governo Conte. Va detto che tutti i principali partiti hanno approvato il provvedimento o sostenuto la sua proroga. Complessivamente il governo ammette che da ottobre 2020 ad aprile del 2024 il conto per lo Stato riferito ai crediti d’imposta e alle agevolazioni fiscali inerenti la ristrutturazione di immobili privati sia pari a 219 miliardi, di cui per il superbonus circa 160. Il solo superbonus costituisce una cifra di appena 30 miliardi inferiore al totale del tanto decantato Pnrr e che si stima avrà effetti sul Pil dell’1% quest’anno.

Il controsenso è che ad aprile l’Ecofin (cioè il consesso dei ministri economici e finanziari dell’Unione) approva definitivamente la direttiva europea chiamata «case green» con il solo voto contrario di Ungheria e Italia. L’obiettivo dovrebbe essere quello del risparmio energetico nell’edilizia, passando a una riduzione dei consumi del 16% entro il 2030 per poi raggiungere zero emissioni entro il 2050. La proposta iniziale era ben più vincolante, ma poi ha prevalso quella che viene chiamata flessibilità, leggasi diffusa arrendevolezza al pensiero restauratore antiecologico. Uno schema già visto che vede una parte della destra opporsi perché gli oneri di tali provvedimenti si scaricherebbero sui proprietari, un tema reale che semmai dovrebbe porre il problema di chi paga la conversione ecologica, non se farla o meno. Il controsenso sta nel fatto che l’Italia, nonostante un ammontare simile a quello del Pnrr speso proprio in questo campo, voti contro perché particolarmente lontana dagli obiettivi proposti. Ma possibile che quei 160 miliardi siano serviti così poco?

Il sostegno pubblico avrebbe dovuto spingere a ristrutturare le abitazioni private favorendo il risparmio energetico. Un investimento di tale entità, e paradossalmente proprio in virtù della sua insostenibilità finanziaria, avrebbe dovuto, al pari delle attese rigeneratrici che si hanno per il Pnrr, ammodernare significativamente il complesso edilizio. Invece no, il paese teme di non farcela a raggiungere gli obiettivi unionali.
Il paragone con il Pnrr è d’obbligo e non solo in termini di quantità. Anche lì rischiamo una spesa pubblica inefficace. Senza un progetto d’insieme. Senza una visione. Stiamo parlando complessivamente di quasi il 20% del Pil annuale italiano in circa un lustro. Il problema non sono le risorse, ma come impiegarle. Al netto di prevedibili imbrogli e storture, investimenti di tale entità dovrebbero materializzare un cambio di passo nel paese. Il rischio, in realtà, è che nulla cambi, o quasi. Privatizzando immediatamente i benefici ottenuti con risorse pubbliche, senza produrre effetti positivi per l’intera collettività, a partire da quelli ambientali. Per non parlare di come l’ingente impegno pubblico non cerchi neppure di intaccare le crescenti diseguaglianze, ma finisca invece per rafforzarle.

Lo stesso studio di Nomisma, commissionato dall’Associazione costruttori edili dell’Emilia Romagna, uno studio piuttosto benevolo con il superbonus, con un’impostazione keynesiana che intende dimostrare come vi sia un ritorno nelle casse dello Stato grazie a un certo moltiplicatore, deve riconoscere la criticità di avvantaggiare le classi sociali con redditi medio-alti. Insomma, questa sorta di via pubblica di risorse finisce per aggiungersi nel sostenere il cieco capitalismo privato, senza un barlume di programmazione, senza una prospettiva ragionata con effetti socialmente condivisi. Lo Stato anziché ridursi o intervenire ove il mercato non arriva (come lo intenderebbe una certa tradizione liberale) diventa agente per sostenere espressamente il profitto con un’azione di redistribuzione inversa. Rovesciando la favola di Mandeville i vizi privati si mangiano anche i benefici pubblici, altro che promuoverli.