«Cosa darei per conversare con Apuleio, a casa sua, a Tripoli o a Cartagine!». Sveleremo più avanti chi è l’autore di questa confessione, alla quale non si accompagnò – come ci si sarebbe aspettati – un’«intervista impossibile» all’avvocato-scrittore esperto di magia che visse nel II secolo d.C. al tempo degli Antonini. Per cominciare, un po’ di storia degli studi. Negli ultimi quarant’anni, a parte Ovidio, forse nessun classico latino ha goduto di una così intensa renaissance critica.

Le Metamorfosi (o Asinus aureus secondo la variante cromatica attestata dall’altro grande africano, Sant’Agostino) non erano state ancora ammesse nel Canone. Tra i filologi tedeschi ottocenteschi era prevalsa la tesi che il romanzo tardo-ellenistico derivasse dalle esercitazioni retoriche della cosiddetta Seconda sofistica (Erwin Rohde, 1876), una genesi che contribuì a svalutare dal punto di vista letterario questa forma tutto sommato ibrida e votata all’intrattenimento («narrativa ferroviaria», ironizzava il mio insegnante di liceo riferendosi ai libri usa-e-getta che allora si acquistavano in stazione prima di mettersi in viaggio). Così, ancora in certi manuali degli anni sessanta la storica fortuna novellistica delle Metamorfosi – dal Boiardo, autore della prima traduzione italiana, a Francesco Colonna, dal Firenzuola al Marino e al Basile – veniva superata dai giudizi impietosi dei «docti viri»: Norden, Auerbach (un autore «spettrale e sadico», incline alle «melensaggini»…).

Oggi la latinità ‘barbarica’ e manieristica di Apuleio sembra quasi del tutto riabilitata. Il suo stile intessuto di trovate linguistiche, ammiccamenti colti e parodie delle «lingue speciali» (militare, erotica, giuridica), secondo molti latinisti in servizio permanente effettivo non è affatto il fumo negli occhi di un «retore da concerto» (la perfida definizione è di Albin Lesky); altresì ad Apuleio viene riconosciuta un’abilità ‘parodica’ che richiama quella dei poeti augustei e di Petronio: nascondere tra le pieghe del racconto, per esempio, sistematiche allusioni ai generi maggiori, come l’epica (basterebbe elencare le riprese virgiliane, studiate tempo fa da Caterina Lazzarini).

Per comprendere una tale inversione di rotta e di giudizio, occorre perlomeno risalire alla metà degli anni ottanta, all’impatto della monografia Auctor & Actor. A Narratological Reading of A.’s Golden Ass pubblicata a Berkeley dal quarentenne John J. Winkler, ardente filologo classico americano trasferitosi in Inghilterra. Quel libro sbaragliò il campo, favorito anche dalla contestuale penetrazione di Cultural Studies e narratologia nei dipartimenti europei di «Classics»; ma la morte prematura di Winkler impedì a un così promettente studioso di correggere col tempo certi assolutismi interpretativi (vedere le obiezioni mossegli anni dopo da Gianpiero Rosati sul ruolo del «narratario» in Apuleio).

In Italia, tra i primi a sintonizzarsi fu un giovane normalista, Massimo Fusillo, il cui saggio sul romanzo greco (Marsilio, 1989) metteva alla prova la teoria polifonica di Michail Bachtin, finalmente approdata in occidente (con sovietico ritardo). Qualche mese dopo la caduta del Muro, dalla scholarship di Cambridge usciva per le cure di Edward J. Kenney l’edizione della novella di Amore e Psiche (inserita, come si sa, nelle Metamorfosi): edizione decisiva per la ricostruzione filologica del testo – malconcio o incomprensibile in diversi punti, spesso peggiorato dai travisamenti di copisti zelanti – e, stante l’autorità dello studioso, decisiva anche per il definitivo abbandono di aviti pregiudizi (Apuleius. Cupid & Psyche, 1990).

Infine andrà perlomeno rilevata, in questo volo d’uccello, la cosiddetta Scuola di Groningen, vera e propria centrale di studi apuleiani nei Paesi Bassi, che nel corso di circa un trentennio ha completato una serie di commenti collettivi ai singoli libri del romanzo (appunto i Groningen Commentaries on Apuleius): non tutti per la verità sono eccelsi, tuttavia hanno contribuito quantomeno a dissodare il terreno.

Questo incremento d’interesse nei confronti dello scrittore africano è anche l’esito di un salto di qualità epistemologico, per certi versi analogo a quello che consentì di risvegliare dal letargo antiquario i Fasti di Ovidio: non leggere più le Metamorfosi solamente in modo indiretto, estraendo informazioni dal repertorio folclorico (un tema dibattuto a lungo a proposito della inventio apuleiana) e misterico-cultuale, a discapito della ‘macchina’ letteraria. Un approccio più tipologico e formale ha consentito tra l’altro di studiare il genere «romanzo» quale spia del moderno mito della provincia in competizione con la metropoli (Alessandro Barchiesi ha parlato in proposito di una «particolare economia libidica»); o, come già ricordato, di portare alla luce i modelli della grande poesia classica di volta in volta convocati da Apuleio a connotare scene cruciali: ad esempio l’ecfrasi di stampo ovidiano sul gruppo statuario di Diana e Atteone nell’atrio di Birrena (Met., II, 19).

C’era una volta… un nome parlante
È un po’ questo lo sfondo in cui si staglia la nuova edizione critica delle Metamorfosi, coordinata da Barchiesi e Luca Graverini per la Fondazione Valla/Mondadori. Nel secondo volume da poco uscito figurano i libri IV-VI, a cura di Lara Nicolini, Caterina Lazzarini e Nicolò Campodonico, con traduzione dello stesso Graverini (pp. XLVII-503, € 50,00). In primo piano, la popolare fabula milesia di Amore e Psiche, inserita «a cornice» nel racconto principale attraverso il consueto décalage del narratore e del narratario: a raccontare la storia, infatti, è la vecchia serva messa a guardia della giovane Carite, rapita il giorno delle nozze dai briganti a scopo di estorsione e rinchiusa nella spelonca dove è tenuto Lucio-asino.

Maestro del Dado (1510/12 ca.-1550 ca.), La serva dei briganti racconta a Carite
la favola di Amore e Psiche, incisione a bulino, Roma, Istituto Nazionale per la Grafica

La mise en abîme della fiaba ha un preciso scopo di rispecchiamento, cioè – ammonisce il commento – «deve … suggerire come leggere il testo maggiore, non istituire una corrispondenza esatta di uno a uno» (p. 265). L’incipit suona assai familiare: «C’erano in una città un re e una regina. Avevano tre figlie bellissime…», e presto la protagonista della storia calamita l’attenzione con il suo «nome parlante» («Psiche» infatti è il termine greco per «anima»). Amore/Psiche è uno strategico nucleo archetipale dal promettente rendimento allegorico e dalle grandi potenzialità narrative, come attestano anche le trasposizioni, arrivate sino ai fratelli Grimm e a Walt Disney.

E l’arte? Se i pittori rinascimentali, barocchi, rococò e neoclassici hanno frequentato i principali episodi della favola dando vita a oli, cicli di affreschi e arazzi, la scultura soprattutto ottocentesca ha cercato di fissare l’estasi della coppia eponima in traslucide traduzioni dotate di ali e farfalle (in greco psyché è anche «farfalla»). Anziché i soliti noti, val la pena di ricordare qui, tra molte altre, le incisioni di gusto antiquario del Maestro del Dado, realizzate sui disegni del fiammingo Coxcie, che divennero una sorta di modello iconografico ‘da parete’ (Perin del Vaga a Castel Sant’Angelo, Sala di Amore e Psiche); o quelle di Max Klinger per un’edizione tedesca della fiaba, nella versione di Reinhold Jachmann, dedicata a Brahms. Insomma siamo di fronte a un mitologema talmente pervasivo da contrassegnare tanto i sigilli in ceramica del II secolo a.C. quanto le porcellane Wedgwood, come si è potuto vedere una dozzina di anni fa in un mostra proprio a Castel Sant’Angelo.

Allusioni alla scultura ellenistica
La tradizione artistica si è concentrata ça va sans dire sull’erotismo e sul patetismo della storia, e perciò – ammettiamolo – è raro imbattersi in rappresentazioni che rimandino alla malizia e all’ironia cifrata di Apuleio. Anch’egli fra l’altro deve essersi giovato di una nutrita enciclopedia visiva, comprendente la statuaria greca e i mosaici romani: la ‘vediamo’ specialmente nelle ecfrasi di cui è costellato il romanzo, e in certi siparietti sui due innamorati. In questi frangenti lo scrittore africano, che prende a modello soprattutto l’Ovidio erotico, lascia intendere di riferirsi a dei precisi modelli plastici di età ellenistica, «presupponendo nel lettore una competenza figurativa e letteraria adeguata a decrittare questo tipo di allusione» (II vol., pp. 371, 296 e altrove).

Alla fortuna che ha accompagnato e arricchito le Metamorfosi ha poi contribuito il dossier delle interpretazioni simboliche e allegorizzanti (a cominciare da Fulgenzio, V-VI secolo), incentivate certo dal fondale misterico del romanzo – Lucio diverrà adepto di Iside una volta concluso il suo tirocinio zoomorfico –, nonché dalla fama dello scrittore «mago». Tali interpretazioni avviluppano il testo per trarne il significato morale nascosto, preferibilmente platonico-isiaco o cristiano.

I curatori della «Valla» dànno conto di queste biunivoche reti semiotiche con rispetto storico ma comprensibile parsimonia, perché la loro attenzione è di preferenza riservata all’impianto narratologico e discorsivo, compreso l’utilizzo strategico della suspense – come si evince talvolta dai confronti puntuali con l’Onos del corpus lucianeo (vexata quaestio). In tal senso già il prologo del romanzo – «una delle pagine più studiate di tutta la letteratura latina» – ha scatenato un rashomon: «E in questa conversazione milesia io intreccerò per te storie di ogni genere e incanterò le tue orecchie benevole con un dolce sussurro…» (corsivo mio, Met., I,1).

Qual è la vera identità dell’io parlante? Apuleio sembra voler mettere sùbito le carte in tavola e programmare un lettore che non si lasci incantare per nulla: questi dovrà essere sufficientemente competente e smaliziato da riconoscere la voce fuori-scena dell’autore-narratore, i suoi commenti, le pungenti allusioni umoristiche (come quando Venere viene di fatto ‘abbassata’ a tenutaria di bordello e prostituta!); nonché individuare i momenti in cui si consuma la «rottura dell’illusione narrativa». Per chiarire quest’ultimo aspetto, due esempi ‘anacronistici’ che presuppongono, appunto, l’«ironico ammiccamento al lettore del tempo»: il richiamo al Diritto romano nella risposta di Giunone alla supplica di Psiche (atterrita dalle prove ‘proppiane’ impostele dalla suocera gelosa); l’oracolo di Apollo che si esprime in latino…

L’ultima parola ce l’ha l’orecchio

Due i punti di forza di quest’edizione: il testo critico e le note di commento. Cominciamo dal primo, di cui si è fatta carico, rara avis in un territorio tradizionalmente maschile, Lara Nicolini, docente di Letteratura latina a Genova e veterana delle Metamorfosi. Anche se non siamo più nell’epoca dei microfilm da visionare in loco, in un modo o nell’altro l’«autopsia» dei manoscritti (per Apuleio, in primis, il codice Laurenziano) resta ancora la via maestra, specie nella fase cruciale del lavoro.

L’orientamento critico prevalente è quello da lei espresso nella Nota al testo del I volume (2019): staccarsi dal «conservatorismo» caratteristico dei Groningen Commentaries – come del resto già fecero Maaike Zimmermann (Oxford Classical Texts, 2012) e il citato Kenney (1990) –, nella convinzione che «è molto più economico emendare che arrampicarsi sugli specchi». Ogni volta che avanza una congettura o si trova a optare fra ipotesi paleograficamente equivalenti, la Nicolini ne verifica sempre la compatibilità con l’idioletto apuleiano, come del resto aveva cercato di fare uno studioso un po’ dimenticato, Johannes van der Vliet, nell’edizione teubneriana del 1897.

Nell’ambito di questo credo ‘progressista’ gioca un ruolo non secondario la «fonostilistica», perché l’orecchio deve sempre avere l’ultima parola in una prosa come quella delle Metamorfosi, «destinata alla lettura ad alta voce e così segnata e influenzata dagli effetti sonori» (I vol., p. CXXVI). Tanto più quando si incontrano delle forme irte o riottose, che a prima vista suscitano sconcerto, fino a quando non vengono ricomprese – attraverso la rete dei rimandi interni – nel più ampio disegno della parole apuleiana («egli smonta e sente la radice di ogni parola», II vol., p. 363). Osserva ancora Lara Nicolini: «la lingua di Apuleio è sui generis, ma non è anarchica e in essa la ricerca dell’effetto può condurre a un’espressione tesa e sforzata, ma mai oscura. Il suo vocabolario è esuberante e pirotecnico, ma non anomalo (…). La sua sintassi è ampia e complessa, ma non involuta» (I vol., p. CXXIV).

Apuleio non è solo un fantasioso «onomaturgo» che conia vocaboli, ma anche lo spiazzante rianimatore (risemantizzatore) di quelli già esistenti. Prendete «curiositas», che insieme a «Fortuna» e a «voluptas» è una delle parole-motore del romanzo: spinge Lucio a bere la pozione che ahilui lo trasformerà in asino, e Psiche all’incauta decisione di smascherare il misterioso marito. Prima d’ora «curiositas» è attestata solo una volta, in Cicerone: Apuleio la «tematizza in modo nuovo, assommando in essa accezioni molto diverse» (II vol., p. 331), e così arricchita la spedisce idealmente agli scrittori cristiani, che a loro volta ne potenzieranno lo spettro psicologico (su tutti Sant’Agostino, concupiscente lettore confesso dei classici pagani).

Per chi deve voltare in italiano le Metamorfosi, la pregnanza lessicale e la ridondanza espressiva (fono-simbolica) sono degli ostacoli altissimi. Anche se non siamo di fronte a un testo poetico, la nostra lingua risulta spesso, drammaticamente, inadeguata. A ciò si aggiunga che il traduttore della «Valla» sconta l’inevitabile confronto non tanto con i remoti Bontempelli (1928) o Carlesi e Annaratone (metà anni cinquanta), ma piuttosto con un Alessandro Fo che, da sagace ripellinista, sfidò Apuleio sul terreno dello stilismo (Frassinelli 2002, poi Einaudi), e soprattutto, intra moenia, con la stessa Nicolini la cui versione del 2005 per la BUR è troppo recente e indovinata per essere già migliorabile (la collazione che ho effettuato però riguarda esclusivamente Amore e Psiche).

Spero non me ne vorrà Graverini se riporto un suo peccato veniale, la resa di «laquearia» nell’ecfrasi del palazzo di Amore (Met. V, I, 9), unicamente perché ho un’antica predilezione per questo termine tecnico da interior design, che incontrai la prima volta in Lucrezio, quand’ero ragazzo. «Laquearia» non è semplicemente il «soffitto» ma il lussuoso «soffitto a cassettoni», come anche nella reggia di Didone a Cartagine (dal canto suo Fo varia con un elegante «riquadri dei soffitti di cedro e avorio…»).

Lara Nicolini, arguzia e abnegazione
L’altro elemento qualificante dell’edizione è costituito, come detto, dalle note di commento, che stavolta superano le 350 pagine! Nelle suddivisioni di questo volume la parte del leone è toccata proprio a Lara Nicolini che cura, con abnegazione scientifica e arguzia, l’intera Amore e Psiche, disponendo così di ulteriore spazio esegetico per argomentare le sue scelte critico-filologiche. Rispetto al tempo in cui la «Valla» era improntata a un modello più asciutto, anglosassone, la sezione «commento» è lievitata. Non ci si limita più a stringate note «epesegetiche» (come si chiamavano) utili a illuminare il testo originale mediante le fonti greche e latine, i «cfr.» letterari e una ben selezionata dossografia; ormai entrano in gioco altri registri ecdotici: ecco allora lunghi paragrafi che introducono le sezioni narrative, ecco micro-dissertazioni sulla storia critica di un passo problematico.

Affiorano qui talvolta annotazioni più personali, ad esempio sulla difficoltà di scegliere chi o cosa gettare dalla torre, che mi hanno fatto pensare alle confessioni autobiografiche affioranti nei fluviali commenti virgiliani di Nicholas Horsfall, o anche – per citare un lavoro disponibile in italiano – al Kenney commentatore di Ovidio nella «Valla». Torna dunque il nome di ‘Ted’ Kenney, scomparso prima del Natale 2019: è un po’ la stella polare della Nicolini, che  tributa al maestro l’onore delle armi ogni volta che deve superarne una pur intelligente proposta, ricorrendo volentieri a una disinvolta prima persona: «opto per»; «a me basterebbe un semplice alias da immaginare caduto subito dopo frumentarias» (II vol., p. 400); «stampo il testo tràdito, ma con grande insoddisfazione»; o ancora, «scontento anche van der Vliet…»). Anche in questo, i docti viri tedeschi sono lontanissimi.

Pietro Tenerani,,[object Object],Psiche svenuta,,[object Object],1822, Roma,,[object Object],Palazzo delle Belle Arti

La Bella e la Bestia
Prima ho citato Walt Disney quale terminale moderno della prolungata fortuna di Amore e Psiche, e il pensiero non può che andare al film d’animazione La Bella e la Bestia (1991), basato in realtà su una favola settecentesca discendente da quella del Madaurense (vol. II, pp. 262-268). Ma esiste, io credo, anche un effetto Disney retroattivo, che a prescindere dal soggetto e dall’intreccio interferisce direttamente con la sceneggiatura di Apuleio. Penso per esempio al passo che ha destato il maggior interesse degli artisti (Met. V, 22, 1), quello in cui Psiche, armatasi di lume a olio e pugnale, è decisa a scoprire l’identità del ‘mostruoso’ marito col quale sinora ha potuto unirsi esclusivamente al buio.

Sorpresa estasiante, si tratta in realtà del «dio Cupido in persona, adorabile, adorabilmente adagiato sul letto. A questa rivelazione…» lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi novaculam paenitebat («…anche il lume della lampada esultò e divenne più splendente, mentre il pugnale stesso malediva la propria punta sacrilega», trad. Graverini). La lampada si esalta, il pugnale vorrebbe annullarsi: sembra già tutto apparecchiato per la matita del cartoonist. Ora, gli oggetti senzienti che si animano sono anzitutto citazione ovidiana (l’understatement di Ovidio del resto è uno degli intertesti preferiti da Apuleio per commentare la carriera erotica di Psiche); tuttavia la nostra memoria visiva non potrà fare a meno di attivare certi popolari automi disneyani, come la cucina stregata in La spada nella roccia (1963) e appunto gli orologi, i candelieri e le tazzine parlanti – ispirati al design delle porcellane di Meissen – in Beauty and the Beast.

Un’ultima considerazione da ‘storia dell’editoria’ ci consentirà di chiudere il cerchio. Questa eccellente impresa italiana delle Metamorfosi, ormai giunta a metà percorso (attendiamo con impazienza i prossimi volumi), porta a compimento un progetto che con ogni probabilità risale agli anni settanta, cioè agli albori della Fondazione Valla. Se infatti si consulta il regesto degli autori «già pubblicati e da pubblicare» che compariva in fondo ai primi volumi della serie, accanto a Omero, a Eraclito, a Erodoto, a Pindaro, a Bacchilide, a Livio (curatori Mazzarino e Gabba, mai realizzato purtroppo), vediamo comparire anche il nome di Apuleio: Le metamorfosi, libro XI (sic), a cura di Reinhold Merkelbach – l’insigne filologo e classicista tedesco che ha studiato il romanzo antico soprattutto in chiave misterica.

Non è difficile immaginare che a caldeggiarne la programmazione sarà stato Pietro Citati: è proprio lui l’autore della frase in apertura del presente articolo, tratta da un vibrante corpo a corpo con l’Asino d’oro (poi raccolto in La luce della notte). Dunque prima di varcare le porte dell’Erebo Citati ha fatto in tempo a veder realizzato l’antico desiderio. L’anno scorso ho avuto l’opportunità di ritornare nel suo elegante appartamento ai Parioli, e lo studio conservava ancora intatti gli strati dei libri, delle letture, dei dattiloscritti e delle carte: esattamente come si trovavano al momento della dipartita. Accanto alla grande poltrona con leggio spiccava il primo volume dell’Apuleio «Valla», contrassegnato in copertina dal mito di Atteone. Le impronte di lettura lasciavano indovinare una consultazione recente.