I dischi dal vivo non sono un’invenzione recente: certe incisioni si avvicinano ormai al centenario, nel computo dei decenni che sono trascorsi. Basti pensare a Spirituals to Swing, i due favolosi concerti, del 1938 e 1939, organizzati da John Hammond – gran scopritore di talenti, in tutto l’arco di possibilità offerte dalla popular music e dal jazz – e immortalati su dischi che hanno segnato la storia e la possibilità stessa di tracciare percorsi cronologici precedentemente ignorati. Prima ancora c’erano state le registrazioni radiofoniche, e il discorso si allargherebbe a macchia d’olio.

La storia del rock, almeno quello che in molti ormai definiscono «classic rock» non comincia certo dal 1974, mezzo secolo fa, per quanto riguarda i dischi dal vivo che catturano qualche momento irripetibile. Ma è un dato di fatto che il cinquantenario di questo 2024, retrospettivamente, ci fa sbalzare fuori con tutta evidenza che il ’74 fu un anno d’oro per i «live». Per qualità e per quantità, per documentazione di diverse estetiche in piena maturità, per una certa consapevolezza che si stava raggiungendo un plateau d’eccellenza che avrebbe fatto da riferimento per il futuro. Ecco una scelta di cosa uscì nel 1974, rigorosamente su quei tondi di vinile che oggi riattraggono giovani e meno giovani, o sulle assai pratiche (ma meno fedeli) audiocassette che si potevano ascoltare anche su riproduttori trasportabili, o, anche e soprattutto, sulle autoradio.

Rory Gallagher
Irish Tour (Bmg)
Vale la pena ricordare qui ancora una volta la celebre frase di Jimi Hendrix a un giornalista che gli chiedeva come fosse sentirsi definire il miglior chitarrista al mondo. Il mancino di Seattle con un sorriso rispose: «Andate a chiederlo a Rory Gallagher». Schivo e timido nella vita (una vita breve: muore nel ’95 a quarantasette anni), una tigre fiammeggiante sul palco che suonava ogni concerto come se fosse l’ultimo, donando ogni stilla di energia. Una Fender Sunburst corrosa dai fiumi di sudore, a volte un’armonica, un sax o un mandolino tra le mani. Spesso il ditale metallico, per infiammare ancor più il suono con la tecnica «slide» padroneggiata da maestro.

Il più puro rocker proletario d’Irlanda, a dimostrazione che il blues non è questione di sfumature d’epidermide o di anagrafe di nascita, ma sentimento, tecnica, carisma non negoziabile. La versione alchemica ed esplosiva di Eric Clapton. Il tour irlandese del gennaio ’74 è la summa delle summe. Il disco raccoglie il meglio dalle date di Dublino, Belfast, Cork, in un momento in cui la tensione per i «troubles» tra protestanti e cattolici è altissima: A Million Miles Away, Cradle Rock, Too Much Alcohol (profetica!) a temperature altissime. Nel quarantennale è stata resa disponibile da Sony una deluxe edition: sette cd e un dvd di documentario, 43 brani inediti. Un fiume in piena.

Santana
Lotus (Columbia)
Il loto è pianta che induce l’oblio, ma qui, invece, innesca memorie musicali poderose. Carlos Santana all’epoca di queste registrazioni è nel pieno di una maturità creativa sfiorata di nuovo solo decenni dopo. La band che salì sui palcoscenici giapponesi di Osaka il 3 e 4 luglio del ’73 per questi concerti, documentati poi su triplo ellepì quadrifonico in originale (e a lungo in vendita solo sul mercato giapponese), nel ’74 non è la stessa della leggendaria performance di Woodstock, e dei lavori immediatamente seguenti, anche se molti brani appartengono proprio a quella fase, e qualcuno dei tempi di Soul Sacrifice è rimasto nei ranghi. Era successo che con Welcome la strategia musicale del focoso chitarrista era cambiata, ormai si trattava di jazz e fusion elettrica con elementi rock, e non il contrario, com’è stato ben detto. Tutto ciò in coincidenza con l’avvicinamento al buddismo, alle religioni orientali in genere, e all’amicizia maturata con il chitarrista jazz John McLaughlin, sulle medesime piste di rinnovamento personale e spirituale misticheggiante, che aveva sortito per i due Love Devotion Surrender nel 1972. Lo strano momento di transizione produce nei fatti potenza e lussureggiante, un po’ prolissa bellezza: capita.

Loggins & Messina
On Stage (Columbia)
Registrazioni «live» del ’72 e ’73, dalla California (il leggendario Winterland di San Francisco) e dalla East Coast, riunite in un doppio disco che non solo ha retto bene la prova del tempo, ma può essere preso come indicatore perfetto di un’epoca in cui uno scanzonato folk rock a volte più orientato al rock’n’roll, a volte alla psichedelia, altre ancora alla country music meno nashvilliana (nel senso in cui la intendevano Eagles e Poco, per intendersi) faceva scintille, e garantiva una miscela ricca e variegata. In effetti Jim Messina dai dimenticati Poco arrivava proprio, e aveva trovato un’intesa perfetta con Kenny Loggins: avrebbe dovuto essere solo il produttore, poi i due scoprirono di avere un idem sentire in musica filante e perfetto, e di qui il nome a due della ditta, con Jim Messina prontamente investito anche da compiti di scrittura e parti chitarristiche non da poco.

Quando registrano On Stage hanno alle spalle tre dischi, uno più bello dell’altro, ma, col conforto di una band alle spalle di quattro eccellenti professionisti, riescono a fare ancora meglio: tant’è che poi, in studio, inizierà la parabola discendente. Qui, tra la scanzonata e flessuosa Your Mama Don’t Dance, la piece de resistance di Vahehala (ventuno minuti di pura psichedelia che scorrono come due) e molte ballad perfette, si fissa un momento decisivo nella storia del country rock.

Van Morrison
It’s Too Late to Stop Now (Polydor Mercury)
Strane vicende della musica: qualcuno nel 1974 fa uscire la propria miglior prova dal vivo, qualcuno invece, a dispetto dell’impegno, della preparazione maniacale, della validità dei musicisti impiegati fa un mezzo tonfo: in quest’ultima triste casistica (ma si sarebbe risollevato alla grande, sia chiaro) rientra il live del 1974 del Duca bianco, David Bowie, un disco sfocato che mal fotografa il passaggio dal periodo glam rock di Ziggy Stardust a quello più black & soul di Diamond Dogs. Invece Van «The Man» Morrison trionfa sui palchi con un doppio ellepì «live» che è pura nitroglicerina celtic soul rock.

Si potrebbe partire dal titolo, una frase davvero rivolta da Morrison a quelli della band, (nel mezzo di un brano che la conteneva davvero, la frase: rivolta a una ragazza) che aveva preso derive imprevedibili, un’alluvione di suono: «Troppo tardi per fermarsi». Dunque si continua, il piede sull’acceleratore delle emozioni. Qui l’irlandese doc è ripreso in concerto al Rainbow londinese e nelle date californiane del Santa Civic e del Troubadour del tour 1973: un ripasso di fuoco prima di spiccare altri voli con la fase arcaica Them rappresentata da Gloria e Here Comes the Night, e fino ad arrivare all’ultima uscita di studio Hard Nose the Highway, e alla più bella versione di Cyprus Avenue (oltre dieci minuti!) che si possa concepire. Tutto è palpitante e vitale, una frenesia evidente avvolge «The Man» e chi suona con lui. Di recente è stato pubblicato un nuovo cofanetto con lo stesso titolo, e la dicitura Vol II, III & IV: due cd con altri pezzi e il dvd con parte del concerto al Rainbow. En plein.

Frank Zappa
Roxy & Elsewhere (Rykodisc)
Ma com’è possibile che un disco dal vivo di Frank Zappa sia isolabile dalla mole elefantiaca di decine di altri e degnissimi dischi «live», ognuno uno scrigno di occasioni irripetibili, di scherzi e colpi di genio? Semplice. Lo aveva già stabilito lui che i concerti del Roxy (e non solo, come dice il titolo: ma qui tre quarti del materiale arriva proprio dal locale di Los Angeles) erano stati tra i più divertenti, impegnativi e riusciti di tutta la sua carriera, almeno per quanto riguarda il versante rock e jazz rock. Sul palco aveva gente come George Duke, Tom Fowler, Chester Thompson, ma, soprattutto, c’è in gioco la favolosa Ruth Underwood, percussionista di estrazione classica e contemporanea, polistrumentista e anche notevole vocalist.

+Con Zappa impara che certo rock jazz storto e dai profili melodico-ritmici impossibili del baffuto maestro è sì impegnativo come e quanto una partitura contemporanea, ma in più è molto divertente, da suonare: perché sul palco del Roxy si moltiplicano le scene surreali orchestrate dal diabolico Duca delle Prugne, gli scherzi, le sfide a far sembrare musica pop cose che i nove decimi di musicisti esperti giudicherebbero quasi impossibili da suonare. Vedi alla voce RDNZL, The Black Page, Inca Roads. Oltretutto, con molte «prime» per brani che il pubblico non conosceva affatto. Nel 2013 è apparso, dagli sterminati archivi zappiani, Roxy by Proxy, materiale inedito dai quattro show al Roxy senza overdub o manipolazioni, da un mix del 1987, e di recente è arrivato anche Roxy, The Movie, dvd (e cd con l’ottima traccia sonora) con la leggendaria ripresa video dei concerti in parte danneggiata, con i quali Zappa avrebbe voluto realizzare un film. Ricostruito e restaurato con acribia da varie fonti, fotogramma dopo fotogramma.

Bob Dylan
Before the Flood (Columbia)
Anche del cantore errante di Duluth si può rintracciare una discografia «live» ai confini della ridondanza. Vero è però che certi concerti di Dylan finiti su disco o cd misteriosamente non sono certo il meglio della produzione del Nostro, ad esempio gli stanchi e infiocchettati concerti del Budokan, come banalizzare un repertorio ad altissimo peso specifico, o il fragile live con i Grateful Dead, che avrebbe potuto essere un capolavoro, e che si merita una sufficienza stiracchiata assai. Al contrario, un pugno di dischi dal vivo bastano e avanzano a definire non solo una carriera personale, ma uno zeitgeist, uno «spirito del tempo» che marca stretta la cronologia, e che continuerà a rimandarci un’esperienza unica a ogni ascolto. Ad esempio con questo doppio dal titolo profetico, «prima del diluvio».

Dylan ha al fianco la fida Band di Robbie Robertson, gente che dava l’anima sul palco e lo avvolgeva di note giuste, lui qui ha una voce meravigliosamente indispettita e potente, come mai più avrà. Il pubblico è elettrico esattamente come la gente sul palco. Si crea un’onda d’energia che, ancora oggi, rende inimitabili certe versioni dei suoi brani: ad esempio It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding), e la più travolgente Like a Rolling Stone mai ascoltata da un palcoscenico. E la Band, quando è da sola, non è da meno.

Mott the Hoople
Live (Columbia)
Erano stati a un passo dallo scioglimento per esaurite possibilità di «bucare» un mercato che li guardava con sufficienza. Come successe ad esempio agli altrettanto grandi e mai ricordati Silverhead, negli stessi campi. Poi arrivò il Signor David Bowie, che già aveva «salvato» la carriera di Lou Reed, e regalò loro All the Young Dudes. Fatta. Era nato per davvero e aveva cominciato a correre su gambe forti Mott the Hoople, una delle realtà più ruvide e scintillanti al contempo del glam rock inglese, destinata a prendere poi le stimmate della classicità. Chi avrebbe potuto prevedere, però, che il momento di trionfo vero, sui palchi di New York, 1974, gruppo di spalla nientemeno che i Queen, sarebbe stato anche il canto del cigno? Bizzarrie del destino.

Intanto riascoltare questo fumigante live di mezzo secolo fa, che nell’edizione del trentennale s’era arricchita di un intero altro disco (quindi: date da Hammersmith, Londra, e Broadway, Usa), con le note scritte da Brian May dei Queen stessi, è un viaggio favoloso in un rock che più classico oggi non si potrebbe, la voce di Ian Hunter a incorporare, in uno strano ma efficacissimo connubio, le asprezze di Bob Dylan, gli allusivi bassi di Bowie, gli strascichi svogliati di Lou Reed: pura tempra di rocker. Tutt’ora sui palchi, a più che veneranda età da Rolling Stones, senza più i «suoi» Mott. Pazienza, quelli sono qui.

Fairport Convention
Fairport Live Convention (Island)
Dopo essere stati a un passo dallo scioglimento con il debole disco Rosie, e aver ripreso consistenza con Nine, il più blasonato gruppo folk rock d’Inghilterra, attivo dal 1968, fonte d’ispirazione per centinaia di altri gruppi ovunque nel pianeta, approda al disco live, conosciuto col titolo che abbiamo prima indicato, tranne che negli Stati Uniti e Canada, ri-denominato A Moveable Feast, giocando di perfetta assonanza con un celebre romanzo di Hemingway. Sta di fatto comunque che queste registrazioni dal tour mondiale del 1973, con due prese dirette dall’Inghilterra e una decisiva porzione dalla Sidney Hall in Australia forse non colgono tutto lo splendore affollettato del suono Fairport, tra gioia saltellante e cupi momento di introversione, ma restano però l’unica testimonianza ufficiale «live» col gruppo della meravigliosa Sandy Denny, la signora inimitabile del folk in chiave progressiva in terra d’Albione. Si tratta di un «ritorno a casa», dopo avventure solistiche (qui testimoniate dalla splendida John the Gun) e di un rinnovato sodalizio artistico per la band col marito, il potente Trevor Lucas, dalla voce inconfondibile, come la consorte.

Le Orme
In concerto (Philips)
E in Italia? Il 1974 è avaro di «live» quantitativamente, ma significativo dal punto di visto storico (prima di questa data praticamente non ce n’è traccia) e della qualità. Con dischi tutti controversi, dunque assai meritevoli di un riascolto critico, perché innescano buona dialettica. Cominciamo da qui, dal gruppo veneto sempre al confine tra un lirismo manierato un po’ troppo sporto sul pop, e avventure coraggiose nel progressive rock di valore sostanziale, il concept album Felona & Sorona in primis, che si avvalse anche di una versione inglese coi testi curati nientemeno che da Pete Sinfield. Il 16 e 17 gennaio Le Orme sono sul palco del Teatro Brancaccio a Roma: ne sbalza fuori In concerto, disco amato e disprezzato in eguale e speculare maniera. Disprezzato da molti, perché la qualità tecnica è quella che è, e le versioni di brani famosi poco aggiungono di nuovo, e da Felona c’è un solo brano. Amato perché solo qui potete trovare Truck of Fire, un brano mai inciso in studio, che è puro virtuosismo applicato prog.

New Trolls
Tempi dispari (Magma)
I New Trolls di questo «live» sono uno dei due tronconi in cui lo storico gruppo prog genovese si divise dopo Ut, album in cui molte anime musicali erano in conflitto, a partire da quelle di Vittorio De Scalzi e di Nico Di Palo. De Scalzi darà vita quindi, recuperando Giorgio D’Adamo in formazione, ai New Trolls Atomic System, protagonisti di questo disco in cui si sente forte la presenza del batterista jazz (ma innamorato della pop music) Tullio De Piscopo. Due soli lunghi brani, con titoli che sono indicazioni di tempi dispari, appunto: Settequarti e Tredici ottavi, secondo la vulgata classica registrati nel mitico Teatro Alcione di Genova tempio dell’allora nuovo prog rock. In realtà le registrazioni in teatro risultarono inutilizzabili, e i New Trolls versione Atomic System re-incisero il tutto dal vivo, sì, ma… in studio.

Premiata Forneria Marconi
Live in Usa (Numero 1)
«Dal vivo negli Usa» solo per il mercato italiano: altrove, in tutto il mondo, è conosciuto come Cook: slang per «suonare come si deve». Non certo i migliori concerti del leggendario tour americano in cui la band divenne protagonista di quello che gli anglofoni allora definirono «spaghetti rock»: altre date furono più sentite di queste al Central Park e a Toronto, e anche l’incisione non è delle migliori. Però è una buona summa del livello magistrale di coesione e destrezza, quasi col pilota automatico, della Pfm d’allora: Celebration (in originale È festa) con Flavio Premoli che incastona nel flusso Impressioni di settembre, Alta Loma Five Till Nine con la cavalcata rossiniana dal Guglielmo Tell.