Nel vasto panorama del graphic novel contemporaneo, pochi artisti hanno saputo catturare l’esperienza multisensoriale dell’esistenza umana e dello scorrere del tempo con la stessa intensità di Chris Ware. Nato nel 1967 a Omaha, in Nebraska, Ware si è imposto all’attenzione del pubblico nel 2000, con la pubblicazione in volume del pluripremiato Jimmy Corrigan, il ragazzo più in gamba sulla terra. Con questa opera di estremo rigore formale e stilistico, Ware è riuscito ad abbattere la barriera di pregiudizi che ancora troppo spesso circonda la narrativa grafica, sfidando i confini tradizionali del medium e dimostrandone le grandi potenzialità. Da Building Stories (2012) al più recente Rusty Brown (2019), le opere di Ware scaturiscono da un meticoloso lavoro di ricerca e sperimentazione grafica, dove la pagina e le singole vignette diventano un palcoscenico per esplorare le emozioni più profonde e universalmente umane. Le tavole di Ware sono state esposte in diverse sedi, dal Museum of Contemporary Art di Chicago al Centre Pompidou di Parigi, e dal 9 marzo al 12 maggio saranno in mostra al museo PAFF! di Pordenone. Alla inaugurazione della mostra, intitolata «La prospettiva della memoria», abbiamo ripercorso con Ware la parabola del suo lavoro.

Quando lei ha cominciato a pubblicare i primi libri, negli anni Ottanta, il graphic novel era considerato un mezzo espressivo rivolto quasi esclusivamente a un pubblico adolescenziale, con scarse pretese di letterarietà. Da allora importanti mostre sono state dedicate alle sue opere in musei internazionali interamente votati all’arte del fumetto. Come ha vissuto questi cambiamenti?
In America, per un certo periodo, l’attenzione si è effettivamente spostata verso i fumetti indirizzati a un pubblico adulto, ma ora la tendenza si è un po’ affievolita. Sembra ci sia qualcosa nel DNA della nazione che riporta sempre a considerare il fumetto un medium per bambini o comunque paraletterario. Oggi i fumetti sono visti come una «corsia preferenziale» verso la lettura, qualunque cosa significhi. Mentre il tipo di storie che Seth, Dan Clowes, Adrian Tomine, Nick Drnaso, Charles Burns e io stesso creiamo tendono ancora a essere considerate periferiche. Di tanto in tanto, qualche mostra all’improvviso celebra le nostre opere come una forma d’arte da prendere sul serio, ma poi svanisce tutto. I disegni dei fumetti vanno guardati, ma anche letti, e nelle nuove generazioni di fumettisti molti sono più sensibili all’aspetto visivo piuttosto che alla lettura. La flessibilità di questo mezzo di comunicazione mi stupisce sempre. Non me l’aspettavo, quando ho iniziato a disegnare. Per quanto mi riguarda, mi considero un artista, ma forse sono uno scrittore, non so.

Le sue opere hanno dimostrato che il fumetto è in grado di rappresentare lo scorrere del tempo in maniera persino più efficace della letteratura non grafica. Penso ad esempio all’uso innovativo che lei fa delle transizioni non-lineari da una vignetta all’altra attraverso intricati diagrammi, evidente soprattutto in opere come «Jimmy Corrigan e Building Stories». Quando disegna fumetti ha in mente un percorso specifico o preferisce concentrarsi su uno sguardo d’insieme?
Ho scoperto fin da subito che quando cercavo di pianificare, ogni cosa risultava morta. Era come creare un cadavere. Per frustrazione e per una sorta di disperazione emotiva ho iniziato a improvvisare delle strisce solo con l’inchiostro sulla tavola e, all’improvviso, sembravano stranamente prendere vita. Più ci lavoravo, più si creavano connessioni che non avevo visto e di cui non mi ero reso conto. All’inizio ho pensato che si trattasse di pura fortuna, ma poi ho capito che non si può imporre una struttura all’arte, bisogna trovarne una in cui l’arte possa svilupparsi da sé.

In alcune delle sue tavole la scrittura è talmente minuscola che si legge a fatica, mentre altrove l’intera composizione grafica è organizzata attorno a una frase o una parola che emerge al centro della vignetta quasi come un ideogramma. Come intende l’interazione tra testo e immagini nei suoi lavori?
Credo che nei fumetti parole e immagini funzionino allo stesso modo. Nel mio caso, l’utilizzo di parole o anche di immagini di dimensioni diverse serve a dare il senso di ciò che avviene nella memoria. Si possono avere ricordi che sembrano importanti e piuttosto rumorosi nella nostra mente, mentre ce ne possono essere altri che al contrario sono molto, molto silenziosi e lontanissimi. A volte però quei ricordi silenziosi e distanti sono i più significativi, sono quelli che teniamo sepolti e repressi perché troppo dolorosi o troppo rivelatori. Spesso avviene in modo naturale. Anche io, quando lavoro, ogni tanto mi rendo conto di aver disegnato qualcosa che è emotivamente al centro di un’esperienza vissuta e di cui mi ero completamente dimenticato, mentre altre volte mi capita di rivivere un ricordo più e più volte fino a farlo diventare una bugia. In effetti, per la maggior parte i ricordi sono davvero bugie. Li cambiamo man mano che li ricordiamo. E questo è dimostrabile. Ogni volta che scrivo qualcosa appena accade, succede poi che quando lo ricordo più avanti spesso è diverso da come lo avevo scritto. E a volte anche il ricordo di ciò che ho scritto è diverso. A volte penso che la memoria sia più una questione di dimenticanza: riguarda più ciò che scordiamo che ciò che riusciamo a ricordare. In realtà, ricordare e immaginare fanno parte dello stesso processo mentale.

Considerate nel loro insieme, le sue opere costituiscono un profondo studio della memoria, un’esplorazione delle modalità attraverso cui l’intreccio di memoria e immaginazione costituisce l’essenza più intima dell’esistenza umana. Nel corso degli anni questa esplorazione ha assunto diverse forme grafiche e stilistiche: dalla ricerca diacronica, o ’genealogica’, di «Jimmy Corrigan» alla stratificazione architettonica e sincronica di «Building Stories», passando per la prospettiva matematica indagata in «The Last Saturday», fino alla struttura ’quadrimensionale’ di «Rusty Brown». Lei considera questi lavori come parte di un progetto univoco?
Sì, in effetti lo sono. Ci sono aspetti che si collegano gli uni con gli altri. Tendo a non esplicitarlo ma è così, grazie per averlo notato. Il fumetto, come ha detto il mio amico Art Spiegelman, si può considerare l’arte di trasformare il tempo in spazio. Per me questo implica non solo la possibilità di vedere contemporaneamente sulla pagina tutti i momenti della vita, ma anche il fatto che lo scarto tra immagini e parole riflette la mia esperienza nel presente e allo stesso tempo le mie ipotesi sul futuro e i miei rimpianti passati. È una rappresentazione di come ci si sente a essere vivi.

Le sue opere sono pensate anche per un pubblico di collezionisti e lei stesso è un appassionato collezionista. C’è un rapporto tra la materialità degli oggetti e la rappresentazione grafica della memoria?
Sinceramente non ci avevo mai pensato. Molti fumettisti sono grandi collezionisti, come il mio amico Seth. La sua casa è piena di oggetti, l’intero edificio è una meravigliosa opera d’arte. E so che lui è molto legato all’idea che nulla è per sempre. L’ha persino scritto in latino sopra l’ingresso di casa sua: «Niente dura». Io la penso esattamente come lui. Probabilmente molti fumettisti si legano agli oggetti materiali per cercare di aggrapparsi a qualcosa che sentono costantemente di perdere.

I personaggi di «Rusty Brown» e «Chalky White »nascono come caricature di collezionisti nerd di mezza età, poi si evolvono gradualmente in personaggi sfaccettati e sin troppo umani. Quando e perché ha deciso di esplorare la loro infanzia e di ampliare l’orizzonte delle loro vite?
Credo che l’inclinazione naturale alla base del fumetto sia il senso del ridicolo, o almeno così è stato per molti secoli. Il fumetto è un mezzo perfetto per ridicolizzare cose e persone – il disegnino di qualcosa che si può tranquillamente guardare dall’alto in basso e di cui si può ridere. Quella era l’unica emozione che bisognava provare leggendo fumetti. Poi sono arrivate alcune opere che hanno indotto qualcuno a pensare: «Ehi, forse anche i fumettisti pensano! Forse allora ci sono anche altre emozioni che si possono provare». In effetti, per quanto sorprendente possa sembrare, è possibile ricavare dal fumetto ogni tipo di emozione. Perciò, in quanto artista che utilizza questo medium, non voglio più ridicolizzare i miei personaggi. Quando mi capitava di realizzare una striscia che prendeva in giro un personaggio mi sentivo un irresponsabile. Si trattava comunque di un personaggio con una storia: perché avrei dovuto prenderlo in giro? È molto più interessante immedesimarsi in lui come si dovrebbe fare con chiunque si incontra per strada.

Spesso nelle interviste ha citato alcuni romanzieri che apprezza particolarmente e che in un certo senso l’hanno ispirata. Tra questi Nabokov, Faulkner, Proust, Joyce, David Foster Wallace. Oltre all’attenzione maniacale alla grana del testo, questi autori hanno in comune l’estrema complessità strutturale delle loro opere, che sembra quasi voler sfidare il lettore. Anche lei considera le sue opere come una sfida?
Non cerco di confondere le cose, anzi, cerco di renderle nel modo più chiaro possibile. Non è mia intenzione mettere in difficoltà il lettore, voglio solo che percepisca lo stesso tipo di complessità che provo io nella vita, un riflesso della mia stessa confusione. In realtà vorrei che le mie opere fossero accessibili e facili da leggere, anche se forse non sempre ci riesco. Cerco solo di creare qualcosa che sia il più bello possibile.

Lei ha realizzato diverse copertine del New Yorker spesso ispirandosi a temi di natura politica o per commentare eventi di attualità. Un caso particolarmente significativo è la copertina del 4 luglio 2022, intitolata «House Divided», che rappresenta un’America politicamente e culturalmente divisa. A proposito del funzionamento della memoria, le sembra che in America sia in atto un’amnesia collettiva riguardo l’assalto a Capitol Hill del gennaio 2022?
Già, sembra proprio così e non lo capisco. Anch’io dimentico sempre le cose, ma non posso certo dimenticare quei fatti. E non riesco a credere che le persone che vi hanno partecipato, e soprattutto le persone che non hanno detto quello che avrebbero dovuto dire in quel momento per impedire che accadesse di nuovo, ora stiano facendo marcia indietro appoggiando di nuovo Trump come candidato alla presidenza. È imbarazzante. È vergognoso, credo proprio che l’America sia arrivata al capolinea. Il sistema sanitario cade a pezzi. Ci sono più armi che persone. Le donne sono trattate come cittadini di seconda classe, i loro diritti non vengono garantiti. Sono molto preoccupato. Mia figlia frequenta l’università in Canada. Ha fatto domanda di iscrizione il giorno in cui i suoi cugini sono stati coinvolti in una sparatoria di massa alla periferia di Chicago. Non sono rimasti feriti, ma erano lì quando è successo, sono scappati dagli spari. Credo che ci siano state una dozzina di vittime. Vorrei tanto sbagliarmi sul destino dell’America, ma temo che non sia così. Ciò che mi spaventa è il numero di persone che non sembrano minimamente preoccupate nonostante i numerosi campanelli d’allarme. Proprio non riesco a capirlo. Gli americani hanno un’incredibile capacità di ridere delle cose. Forse è uno dei nostri punti di forza, ma ne dubito. Vedremo.