«Al contrario di quello che credevi, Virginia, Orlando non era solo». Riconoscersi molteplici è la chiave dell’esordio alla regia di Paul B. Preciado, filosofo fondamentale per la teoria queer, da più di vent’anni indagatore delle costruzioni di genere nel loro rapporto con la storia occidentale delle idee. All’interno di questa storia ecco però che la disphoria mundi, forza impersonale e collettiva, trasforma gli individui spostandoli dall’asse «prestabilito» dalla legge binaria e non solo. Il movimento sarà forse sotterraneo, ma è senz’altro universale, ed è dunque prendendo la parola insieme che si possono fare i conti con la pluralità di anime che ci abita.

NON ERA COSÌ in Orlando, il romanzo scritto quasi cent’anni fa da Virginia Woolf, in cui il giovane protagonista affrontava il cambiamento di sesso da solo, unicamente un cane a tenergli compagnia. Cosa penserebbe oggi Virginia, se vedesse quanta strada è stata percorsa da allora? L’autrice, Preciado ne è convinto, era «una di noi»: anche lei sapeva cosa significasse passare attraverso l’esperienza della psichiatria, anche lei faticava a riconoscersi in una immagine di femminilità che non corrispondeva ai canoni, anche lei era infelice in quelle categorie troppo strette.
È dunque nelle vicinanze e nelle distanze da questo romanzo «fondativo» per l’esperienza trans che si sviluppa la corrispondenza indirizzata proprio a Virginia, al centro di Orlando, my political biography, presentato lo scorso anno alla Berlinale dove ha ricevuto diversi riconoscimenti – Premio della giuria di Encounters, menzione speciale per il documentario, Teddy Award per miglior film non fiction.

La redazione consiglia:
Preciado: «Fanno di tutto per fermare la rivoluzione in atto»UNA COLLETTIVITÀ prende la parola, si presenta alla telecamera, condivide un vissuto, legge Virginia. Ci sono bambini, giovani, anziani, ognuno di loro è una diversa declinazione di Orlando che si presenta pronunciando il proprio nome come fosse un piccolo rituale. Il nome esemplifica ciò che non abbiamo scelto e che, se volessimo, potremmo cambiare. Dal bisturi agli strumenti della poesia, le operazioni sul linguaggio sono al cuore di questa sovversione, d’altronde la nostra natura è quella di «artefatti discorsivi, assemblaggi di carne e finzione». E dove c’è finzione, la reinvenzione è sempre possibile, anche se la burocrazia tende a fissare e ad eludere questa opportunità. Era l’idea di Elias Canetti: il potere – inteso nel senso della distinzione deleuziana tra potere e potenza – è ciò che frena, che stabilizza, che impedisce le metamorfosi, pena la perdita di controllo.

Nell’immaginazione di Woolf il giovane Orlando si risveglia donna dopo un lungo sonno. Tuttavia, per questa comunità trans insieme a cui Preciado ha costruito il film, la metamorfosi è stata ben più complessa e sofferta. Il corpo a corpo con lo psichiatra è solo uno dei calvari che la società impone agli Orlando, il regista ci racconta questi passaggi obbligati in un continuo andirivieni tra testimonianza e messa in scena, i suoi ricordi si intrecciano con quelli degli altri e altre – da giovane Beatriz, cresciuta in una zona remota della Spagna, alla prima assunzione degli ormoni a New York fino alla scelta del nome Paul. «You might be synthetic but you’re not apologetic, you’re not the doctor’s bitch» è il ritornello della canzone inventata per riassumere la lotta contro la medicalizzazione forzata del vissuto trans, subito oltre vi è la critica alla psicoanalisi, da Freud a Lacan, che ha ingabbiato la sessualità con spiegazioni che suonano come condanne.

A FARE PAURA, soprattutto, è la «zona grigia», il non voler appartenere, il non potersi definire questo o quello. L’incerto non deve esistere. Ma non è proprio questo il gioco della parola poetica, la sua pluri-semanticità, i rimandi che non trovano una sistemazione definitiva? La critica al binarismo in questo film utilizza tutta una serie di stilemi pop, a partire dalla palette di colori, rendendo Orlando, my political biography l’opera più accessibile di Preciado – laddove i suoi libri scavano nella storia del pensiero sfidando il lettore. Anche la lotta per l’autodeterminazione però ha ormai una storia, e nella seconda parte del film appaiono infuocati materiali d’archivio a ricordarcela. In quest’ottica, le armi dell’ironia e della leggerezza di cui questo film fa uso nascono sul terreno di esperienze e processi dolorosi che risuonano nei discorsi di tutti gli Orlando. E questa compartecipazione ci interroga con delicatezza sui fondamenti dei nostri ordinamenti giuridici, sugli automatismi di cui siamo vittime, sulle immagini stereotipate che ci ingabbiano. Una nuova e più significativa bellezza è ciò di cui abbiamo bisogno, e se l’esperienza trans ha una sua specificità da riconoscere, possiamo però dirci tutti Orlando nel momento in cui ci cerchiamo nel cambiamento, ci amiamo nella nostra unicità, lottiamo per una liberazione che includa la gioia dei corpi.