«In questi giorni ho girato per le strade di Lisbona, e non ho potuto fare a meno di notare che tutto è estremamente diverso dalla Russia: le nostre strade, il clima, perfino il caffè». Ci tiene a sottolinearlo la regista Olga Privolnova per il pubblico del DocLisboa 2015 – dove ancora resiste la lunga e onorata tradizione del Q&A con gli autori – nella presentazione del suo Malenskiy Prints. «Per questo quando vedrete il mio film vi chiedo di mantenere una certa distanza», conclude. Un distacco, quello tra spettatore e l’oggetto filmico, che è alla base dell’esperienza cinematografica, a maggior ragione in un Festival di documentari che ci porta dall’Italia agli Urali, dal Bangladesh del colpo di Stato degli anni Settanta (Last Man in Dhaka Central di Naeem Mohaiemen, in competizione) all’esperienza immersiva nell’Iraq pre e post guerra del 2003 per le oltre cinque ore di Homeland (Iraq Year Zero) di Abbas Fahdel. E lo fa con linguaggi altrettanto lontani tra loro: dalla consolidata tradizione del cinema diretto nordamericano alla sperimentazione «totale» del giovane regista canadese Isiah Medina, che in 88:88 (concorso internazionale) tesse un flusso di coscienza interamente filmato con un iPhone sul disagio di essere, socialmente e psicologicamente, un outsider. «Non c’è pensiero che non contenga la follia», dice, mentre sullo schermo si alterna un collage di situazioni appena accennate: un dialogo amoroso, il cielo, la famiglia, i whatsApp con gli amici, il racconto di un pomeriggio qualsiasi.

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A emergere nella selezione del DocLisboa è però un altro tema ancora, quello dell’urgenza, a cui è dedicata una sezione a se stante – Cinema of Urgency – in cui ci si confronta «a caldo» coi problemi più impellenti dell’oggi. Dell’esodo dei popoli dal Medio Oriente verso l’Europa, ad esempio, si occupa Growing Home, raccolta di otto film brevi che restituiscono altrettanti punti di vista sui confini attraverso i quali cercano ogni giorno di passare decine di migliaia di palestinesi, afghani e soprattutto siriani. E l’urgenza sta anche dietro la scelta delle retrospettive, da quella sulla rappresentazione del terrorismo – I Don’t Throw Bombs, I Make Films – al Focus sulla Grecia.

Temi uniti da un filo rosso e allo stesso tempo diversissimi tra loro, per cui serve appunto una certa distanza, una messa in prospettiva. Eppure il cinema consente anche la prossimità, un momento di «comunione» con ciò che è distante da noi, « offre magnifici accessi ad altre esperienze« – scriveva il critico francese Serge Daney – anche se solo per pochi attimi.

Di questa breve vicinanza è emblematico In Transit, ultimo bellissimo film dello statunitense Albert Maysles, scomparso a marzo all’età di 88 anni, che il festival omaggia con questa proiezione fuori concorso. Il più anziano dei due fratelli Maysles, fra i pilastri del Direct Cinema americano, si imbarca con In Transit sull’Empire Builder, il treno che percorre la tratta lunghissima (oltre 3500 chilometri) e da Chicago porta a Seattle e Portland, dall’Est al profondo Ovest degli Stati uniti in due giorni esatti. Non c’è soggetto migliore di un viaggiatore per cercare di carpire un barlume dell’animo umano: chi sono le persone in viaggio? Cosa le porta a intraprendere questa traversata che va da un capo all’altro di una nazione sterminata, attraversando il fiume Mississippi, le Montagne Rocciose e le Grandi Pianure del Nord? Sulle loro vite il film di Maysles apre una finestra, un raggio illuminato si posa sul motivo per cui sono sul treno, le loro storie e attraverso di esse l’America stessa, che appare in controluce nei loro racconti, i loro desideri e il destino che intravedono una volta giunti a destinazione. A sentire alcuni viaggiatori il tempo sembra essersi fermato: si va ancora ad Ovest in cerca di fortuna, «Go West» è la risoluzione per un nuovo inizio, una pagina bianca su cui ricominciare a scrivere da capo la propria storia.

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Un ragazzo di 21 anni va in Nord Dakota per lavorare in una base petrolifera, «sette anni e sarò sistemato», dice. Un altro prova solo il desiderio di arrivare in un posto dove non conosce nessuno, «è la mia chance di ricominciare». Ma c’è anche chi torna: una giovane donna incinta ha passato già da qualche giorno la data prevista per il parto e si mette in viaggio per r ricongiungersi alla propria famiglia dopo che il padre di suo figlio l’ha abbandonata; un’anziana signora ha fatto visita alla figlia che non vedeva da 47 anni e ora torna a casa, arricchita anche da un tatuaggio – «ma è solo temporaneo», dice. Il capotreno fa il lavoro che ha sempre voluto fin quando da piccolo vedeva il «treno argentato» sfrecciare nel suo paesino e sognava i posti dove non era mai stato. Alcuni, invece, viaggiano solo per il piacere di farlo: «sul treno sono solo me stessa, mentre a terra sono sempre la figlia, la madre o la moglie di qualcuno».

Per un uomo le Grandi Pianure sono un richiamo ancestrale, per la ragazza incinta solo una noia mortale. Un altro si trasferisce in Montana dalla sua fidanzata che vive lì da oltre dieci anni, sempre vista e sentita unicamente attraverso il telefono e internet: poche fermate lo separano dall’incontro che attende da sempre. Fuori dal finestrino, l’America scorre veloce sotto i loro occhi e cambia aspetto ad ogni fermata, dall’altra parte del vetro i viaggiatori la osservano, non vedono l’ora di arrivare o magari di ripartire; per un fotografo di mezza età è l’ultimo desiderio che gli consente un cuore malato: «solo un altro viaggio in treno». La telecamera indugia sui loro volti, li sottrae per un attimo all’anonimato e al mistero a cui torneranno a breve e li abbandona per sempre sulla soglia del treno, dopo che per una manciata di secondi ci erano stati vicini.