«Quando eravamo in tour lo scorso ottobre ci siamo chieste: cosa facciamo? Non eravamo sicure se fosse giusto continuare, mentre ciò che accadeva a casa era molto più grande di quanto potessimo capire. Ma abbiamo deciso di andare avanti. Per noi era importante fare qualcosa per “umanizzare” i palestinesi che non sono molto presenti sui media e nel mondo artistico». È con lo sguardo fermo e deciso che parlano Samaa Wakim e Samar Haddad King quando le incontriamo, a Rimini, al festival Supernova diretto dai Motus dove hanno presentato Losing it. Uno spettacolo minimale quanto emozionante che si fonda sul tentativo di cercare un (im)possibile equilibrio nel mezzo del frastuono della guerra. Basate ad Haifa – nel territorio israeliano che loro chiamano «Palestine ’48» – Wakim, coreografa e performer, è cresciuta in un villaggio vicino al confine col Libano mentre Haddad King, compositrice e coreografa, è nata e cresciuta in Alabama mentre i suoi genitori erano rifugiati negli Usa, e ha poi deciso di andare a vivere nelle terre d’origine. Non è semplice per loro aprirsi in questo momento, i timori sono tanti. Tuttavia, ci sediamo e iniziamo la conversazione.

«Losing it» nasce da testimonianze raccolte sul campo. Potete raccontare questo processo?

Samaa Wakim: Erano storie sul passaggio dei checkpoint dalla Cisgiordania alla Palestina ’48, o di vita quotidiana durante la guerra tra Israele e il Libano nel 2006. Da lì ho iniziato a riflettere anche su come mi sentivo io durante incidenti o situazioni che mi spaventavano, le sensazioni nel mio corpo, che a volte era come paralizzato. E ancora, come reagiscono i corpi ai suoni delle sirene una volta che diventano familiari. In circostanze di pericolo, è come se non si vedesse nulla, intorno è tutto nero. Sono storie molto personali, prossime alla nostra vita. L’unica più «distante», ma in cui comunque ci riconosciamo, è quella dei nostri amici di Gaza, che vivono da sempre una situazione più dura, raccontavano che prima di un bombardamento ricevevano un’allerta per scappare dalle loro case. E questo concetto del conto alla rovescia, che può durare tre minuti oppure pochi secondi, e della corsa successiva, li abbiamo integrati nello spettacolo.

Il suono poi è fondamentale: avete parlato di una «schizofrenia» del piano acustico.

Samar Haddad King: I suoni nello spettacolo li ho registrati durante gli ultimi 14 anni. C’è uno spazio importante tra me che ero in un determinato posto, quello che il pubblico ascolta e ciò che pensa. Ad esempio, c’è un momento molto concitato in cui sembra di trovarsi in una zona di guerra ma in realtà è un matrimonio: ci sono macchine, moto e spari in aria, come talvolta si usa dalle nostre parti per festeggiare. C’è quindi un alto rischio di fraintendimento, e per noi questo allenamento alla distinzione dei suoni è diventato essenziale per la sopravvivenza. Quando si è bambini, lo si fa persino come gioco: è una bomba quella che abbiamo sentito in lontananza oppure no? O ancora, si tratta di un aereo commerciale o di un jet? Di fuochi d’artificio o di spari? Sono armi automatiche oppure no? È molto importante per capire se è un contesto in cui si è al sicuro oppure se bisogna fuggire. Non ho iniziato a lavorare su tutto questo con un intento artistico, ricordo solo che il primo oggetto tecnologico che ho avuto è stato un grande registratore e così ho iniziato a catturare pensieri, canzoni, qualsiasi cosa. Con Samaa lavoriamo insieme da circa un decennio ma quando mi ha chiesto di concepire insieme questa performance, avevo visto come il suono nei suoi lavori veniva incorporato e internalizzato. E così abbiamo attinto alla mia libreria, scegliendo tra centinaia di ore, per costruire una drammaturgia.

È diverso presentare questo spettacolo ora?

S.W.: Assolutamente sì. Fino all’anno scorso, dovevo ripensare a quello che avevo vissuto da giovane durante il conflitto tra Israele e Libano, avvenuto nell’area del villaggio in cui vivevo, ma non era terribile come quello che stiamo vedendo ora. Mi ha lasciato comunque molti traumi, e domande. Ma con quello che succede adesso a Gaza, è come se l’effetto sul corpo si fosse moltiplicato, perché non ho certo bisogno di sforzarmi per andare a ricercare nella mia memoria quei suoni, basta accendere la tv e ci troviamo immediatamente lì, in questo profondo orrore. Ironia vuole che portare tutto ciò sul palco mi risulta più semplice.

S.H.K.: Quando le persone applaudono alla fine dello spettacolo, voglio pensare che applaudono per l’umanità, per la consapevolezza delle vite perse, che non può salvare nessuno al momento ma almeno è un modo per parlare in maniera più personale rispetto ad un telegiornale.

In Europa si è creata una situazione a due facce: da un lato una forte censura, dall’altra molti artisti hanno preso la parola per la Palestina.

S.W.: Beh, possiamo dire che nel vecchio continente non stia andando molto bene per quando riguarda la democrazia e la libertà di parola, credo che su questo saremo d’accordo. Inoltre i fondi che i governi forniscono al mondo della cultura sono sempre più condizionati, grandi teatri hanno paura di perdere le sovvenzioni, anche per questo non si espongono. Tutto ciò è molto pericoloso per l’Europa innanzitutto, come se il fatto che un’istituzione culturale prenda una posizione in favore dei diritti umani di base, dicendo no all’uccisione delle persone, sia qualcosa di rischioso. Ma allora, a cosa serve l’arte? Qual è il valore di ciò che propongono, cosa possono dare alla società?

Può raccontare qualcosa del teatro di cui fa parte, ad Haifa, il Khashabi Theatre?

S.W.: È una piccola sala da 60 posti nel centro storico della città, un luogo per giovani artisti e per chi ne ha bisogno. Quando si vive in un Paese dove il governo non ci dà questi spazi, bisogna crearli da sé.

Ci sono anche israeliani tra il pubblico?

S.W.: Gli spettacoli, in genere di teatro sperimentale, che proponiamo hanno i sovratitoli in inglese e quindi sono accessibili agli stranieri e a chiunque non parli arabo. Vengono anche alcuni israeliani ma il nostro pubblico principale sono i palestinesi della zona ’48.

Dopo Rimini tornerete a casa. Cosa vi aspettate?

S.W.: Personalmente non penso di fare nulla di sbagliato. Sono una persona pacifica, il mio messaggio è molto umano e il mio mezzo è l’arte, ma non si può mai sapere. Tutto il Paese è intrappolato in un grande trauma e sempre più spesso succede che non si percepisce la sofferenza che c’è dall’altro lato. E questo è molto pericoloso, perché bisognerà trovare comunque un modo per vivere insieme. Le persone sono nate qui, hanno la loro realtà. Non so se la soluzione dei due Stati sia possibile, ma so di sicuro che i popoli possono convivere, lo abbiamo fatto per anni. Il punto è che non si tratta della gente, ma delle classi più alte che ottengono vantaggi da questa situazione, e di chi combatte per la propria libertà e per i diritti umani di base.