Il palcoscenico della 60/a Biennale d’arte sarà un luogo di sicuro spaesamento: così lo ha immaginato il suo curatore brasiliano Adriano Pedrosa (dirige il Museu de Arte de São Paulo) facendo riferimento a un’estraneità che ci accompagna dappertutto (Foreigners Everywhere, sia per radici divenute sabbie mobili, sia per appartenenze sessuali che infrangono gli stereotipi, sia per i mondi indigeni seppelliti dalle varie colonizzazioni e dalla loro onda lunga nella Storia – un murales del collettivo brasiliano Mahku accoglierà i visitatori al padiglione Centrale dei Giardini mentre alle Corderie, ad alzare il «sipario», ci saranno i Maori).

Adriano Pedrosa, foto Daniel Cabrel, courtesy Museu de arte de Sao Paulo

È un’edizione spinosa questa del 2024, investita da molteplici echi di guerra. Lo hanno dimostrato le contestazioni al padiglione di Israele (Mira Lapidot, una delle curatrici di Motherland, la personale di Ruth Patir, ha tenuto a specificare che «sì, siamo israeliani, ma non per questo rappresentiamo il nostro governo») e quelle all’Iran, paese presente in un evento collaterale che incarna a tutti gli effetti una partecipazione nazionale e che una petizione internazionale voleva fosse boicottato (ripetute lettere senza fortuna). Ci sono poi le defezioni di paesi come la Russia (già all’indomani dell’attacco all’Ucraina, due anni fa, gli artisti avevano ritirato il progetto). O il Marocco, che per dissidi si è ritirato, mentre la Polonia ha affrontato ostacoli interni e ha cambiato rotta in corsa, ospitando il collettivo ucraino Open Group con le voci dei rifugiati sul conflitto. La Palestina, senza stato, avrà una sua voce sulla Freedom Boat che attraverserà il Canal Grande mentre a Palazzo Mora ci sarà la mostra che ribalta il titolo della mostra con un Foreigners in Their Homeland, oggetto di accese polemiche perché non inserita fra gli eventi collaterali «ufficiali».

Pedrosa, in questo scenario esplosivo, non ha perso la sua bussola e ha continuato a lavorare seguendo la sua costellazione teorica. Ha optato per una rassegna incardinata su una mappa storica, con moltissimi dei 332 artisti scelti già morti, facendo affiorare i linguaggi dimenticati dei nativi, sulla linea del tempo che già aveva imbastito Cecilia Alemani: è questo un collegamento esplicito, che il curatore rivendica come cifra fondante della precedente e sua Biennale. D’altronde, lui si posiziona come un alfiere del Global South e ha già dinamizzato il museo di São Paulo con le Histórias, serie di mostre con le quali narrava da più punti di vista le collezioni e l’arte contemporanea. «La dimensione politica è ineludibile – ha affermato -. Bisogna domandarsi sempre chi stia raccontando e scrivendo queste storie intorno al Brasile, spesso storie di bianchi, e come si possono creare giustapposizioni o contraddizioni» (https://ilmanifesto.it/diaspora-queer-indigeni-lalfabeto-della-biennale).

Tendenzialmente, i padiglioni nazionali hanno raccolto la sua sfida. Da Jeffrey Gibson che sarà il primo artista indigeno (cherokee) a rappresentare gli Stati uniti all’Australia con l’aborigeno Archie Moore fino al groenlandese Inuuteq Storch per la Danimarca. O al collettivo Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (Catpc) che, insieme a Renzo Martens, «interpreterà» l’Olanda.

 

INTERVISTA

L’acqua che ci unisce: la Martinica al padiglione Francia con Julien Creuzet
Un luogo fluido, immersivo, di continui riverberi, acquatici e storici. Un crocevia di sensazioni che trasformerà il padiglione della Francia ai Giardini in un territorio con molte reminiscenze della Martinica. Perché l’artista scelto (dopo l’incursione già della francoalgerina Zineb Sedira di due anni fa, accompagnata da non poche polemiche) vive a Montreuil ma viene dai Caraibi: Julien Creuzet, classe 1986.

Magasin Cnac, particolare © Julien Creuzet, 2024

La cura della mostra è affidata a Céline Kopp, direttrice di Le Magasin, centro d’arte contemporanea a Grenoble, e a Cindy Sissokho, scrittrice alla guida della Wellcome Collection di Londra.

La presentazione stessa del padiglione si è svolta in Martinica, davanti la casa di Édouard Glissant, nume tutelare della rassegna, quasi a voler dimostrare i confini espansi di una storia, come quella della Francia, lunga e antica. «Una storia anche di impero, che non va dimenticata. Ma questo suo percorso è stato attraversato da molti movimenti geopolitici le cui ripercussioni possiamo rilevare ancora oggi. La Martinica è un dipartimento francese, dista 8.000 chilometri dalla Francia. Io ci sono cresciuto, da un punto di vista simbolico ritenevo importante creare un détournement: si tratta di luoghi che non sono mai stati guardati o ascoltati davvero poco, soprattutto in ambito culturale. Ci sono cose che non si possono raccontare. Andare fisicamente in Martinica permetteva al corpo di sentire». Noi, invece, Creuzet lo abbiamo incontrato su zoom, in un’intervista che germogliava empatia.

Glissant ha scritto «La poétique de la relation». Cosa significa per lei, pensa alla creolizzazione?
Creolizzazione è un termine che viene compreso quasi esclusivamente da un punto di vista francese. Oggi può essere messo in discussione. Per esempio: in Francia, ci sono una moltitudine di lingue che possono già essere considerate «creole»: il bretone, il basco e il corso sono singolarità della lingua francese di cui dobbiamo tenere conto, saper ascoltare e capire, soprattutto in tempi turbolenti, di guerra o di insicurezza. La mostra non sarà un’illustrazione del pensiero di Édouard Glissant; la sua visione filosofica mi indica un modo di essere al mondo, giorno per giorno, di pormi e di coltivare scambi con gli altri.

Ha affermato che il padiglione si trasformerà in una zona sensoriale di confluenza. Può dirci di più al riguardo?
Mi piace l’idea di confluenza. È quando le acque di due fiumi si uniscono o si incontrano e creano un particolare movimento. È qualcosa che aiuta a capire la politica. La poetica delle relazioni è il modo in cui, di fatto, impariamo a scambiare qualcosa con l’altro, senza snaturarlo. Non c’è un pensiero di dominio, che conduce all’idea di Impero. Andare in Martinica, a casa di Édouard Glissant, è stata l’immersione in un luogo che non era solo un’istituzione, ma un posto pieno di poesia, aperto al mondo. Forse è un’utopia, ma un’utopia che mi sembra necessaria, emana un’energia potente. In effetti, se cominciamo a pensare metaforicamente a un’opera d’arte e intuiamo la sua intensità, ci accorgiamo che crea sempre un campo di incontro o di collisione.

Mi interessa il parossismo sensoriale, significa che il corpo deve posizionarsi, non tanto intellettualmente, ma proprio fisicamente. Per me una mostra non può essere vista in silenzio. E mi piace l’idea di convocare o riunire le persone. L’atto di guardare e anche quello di «ascoltare» un percorso espositivo procedono insieme, percependo sensorialmente. Per troppo tempo abbiamo dato valore solo alla testa, oggi abbiamo bisogno di vivere anche con il corpo. L’arte può cambiare il modo in cui guardiamo la storia e il presente? Come, attingendo alla sfera del leggendario o attraverso una dimensione tattile? E cosa vedo io? Il mio punto di vista può spostarsi. L’arte può ferire, guarire, distruggere. E può creare una bellezza inafferrabile. Tutto ciò la rende meravigliosa.

Cosa ritorna nel suo lavoro dall’infanzia in Martinica?
La costruzione dell’infanzia è un immaginario importante, che accompagna tutti i grandi autori, anche in letteratura. Quando si ha a disposizione l’intera vita o produzione di scrittori o artisti, ci si rende conto di quanto la sua dimensione infantile sia stata un evento misterioso che lo nutrirà fino al termine della sua esistenza. Porto con me un immaginario caraibico, martinicano. Con sensazioni che a volte sono inspiegabili, ma che cerco di tradurre quando progetto una scultura e realizzo un’opera: nel modo di pensare al suo equilibrio, di comporre la forma o in cui la accompagnano certi tipi di suono. È difficile parlare di un artista senza essere stati nel luogo da cui proviene. Della maggior parte degli artisti che si trovano in musei nessuno di noi è stato a casa loro.

In un’intervista lei ha dichiarato «ho deciso di essere più opaco», come sosteneva Glissant. Quanto è importante la poesia nella sua arte?
In realtà, ho deciso di reclamare il mio diritto all’opacità, come direbbe Glissant. Il che significa che ho detto che non ci si espone ovunque e comunque. Sono una persona con un certo riserbo. E so che non si conosce mai qualcuno a memoria, l’altro da noi ci sfugge sempre. E così un’opera conserva i suoi segreti e non può che accettare una moltitudine di interpretazioni.

L’acqua di cui di cui parla è un elemento fondamentale anche per Venezia, territorio in cui confluiscono acque e culture…
Ho l’impressione che l’acqua sia ciò che ci unisce. Potremmo dire che per andare a Venezia prima passiamo per i Caraibi, da arcipelago ad arcipelago. L’acqua rappresentava per me un punto di partenza interessante. È una metafora. Ha un inizio, che è la sua sorgente reale ma è anche una fonte di riflessione e di luce, che possiamo presagire.