Dice la Treccani alla voce boomerang. «1. Arma da getto tipica dell’Australia che ha la proprietà di ritornare al punto di lancio quando non colpisca il bersaglio. 2. fig. Azione o iniziativa che si ritorce contro chi l’aveva ideata per colpire o danneggiare un avversario».
Quante volte, nelle ultime settimane, mi è venuta in mente questa definizione ogni volta che leggevo della querela di Giorgia Meloni contro il professor Luciano Canfora che la definì «neonazista nell’animo» durante un incontro con gli studenti di un liceo l’11 aprile 2022. La allora non ancora premier non gradì e querelò l’emerito filologo e storico barese sostenendo che quell’affermazione le avrebbe «leso l’onore, il decoro e la reputazione, aggredendo la sua immagine, come persona e personaggio politico, con volgarità gratuita e inaudita». Di conseguenza, scriveva il suo legale, «La domanda risarcitoria è motivata, anzitutto, dal pregiudizio psicofisico sofferto e, soprattutto, dalla lesione alla reputazione, all’onore e all’immagine». Richiesta danni, ventimila euro. Faccio una postilla. Perché ventimila? Che cosa si ripara con una cifra così? Il materasso intriso di lacrime? In questi casi è il simbolico che conta, e allora basterebbe chiedere un euro, per esempio. Come si sa, lo scorso 16 aprile Luciano Canfora è stato rinviato giudizio e il processo comincerà il 7 ottobre.

Da quel giorno Luciano Canfora è ospite di trasmissioni tivù, intervistato di qua e di là, stra citato su social e web, richiesto di interventi, i suoi due libri in uscita (Il fascismo non è mai morto e Dizionario politico minimo) menzionati in ogni dove, le sue tesi sul senso di neonazista nell’animo sviscerate, analizzate, ribadite e motivate da lui stesso in più interventi. Se prima era conosciuto, ora è famoso al punto che chi lo apprezza ha scritto sulla propria bacheca «Grazie Giorgia».
Al di là dell’uso della querela per diffamazione come arma politica o censoria o intimidatoria, di cui si potrebbe dibattere a lungo e a fondo, la vicenda Meloni-Canfora dovrebbe essere insegnata nei corsi di comunicazione come esempio di tutto ciò che non bisogna fare se si vuole sgonfiare una tesi o un giudizio non graditi perché, come il boomerang insegna, si ottiene l’effetto esattamente contrario, in questo caso si amplifica proprio la tesi che si voleva sanzionare.
Supponiamo che la premier non retroceda e si vada a processo, da ora al 7 ottobre ci sono quasi sei mesi, sei mesi di lanci e rilanci e svisceramenti su fascismo e nazismo dell’animo, sui conti mai davvero fatti in questo Paese con la propria storia fascista e magari, visto che corrono cent’anni dall’omicidio Matteotti, qualcuno imparerà che il fascismo fu repressivo, violento e dittatoriale fin dall’inizio, e hai voglia a dire che Mussolini fece anche cose buone.

Inoltre, poiché è probabile che Meloni venga chiamata a deporre, voglio proprio vedere come si svolgerà in aula la dialettica fra il professor Luciano Canfora e la premier Giorgia Meloni, lui che sottolinea l’allora appoggio di lei al battaglione Azov e lei che ribadisce «il pregiudizio psicofisico sofferto»? Lui che, per approfondire il senso di neonazista nell’animo, arriverà in aula con, come ha scritto il suo avvocato, «una massa importante di documenti biografici, bibliografici, autobiografici» e lei che si appellerà ai suoi padri politici? e quali?
Io, a differenza di altri, non chiedo a Giorgia Meloni di dichiararsi antifascista perché sono convinta che non lo sia. È un mio sentire dell’animo, un moto profondo, una vibrazione politica, direi elettorale.

mariangela.mianiti@gmail.com