Il cubano Miguel Barnet, che ho incrociato molti anni fa in qualche festival latino-americano, aveva ventisei anni quando – giovane etnologo fortemente interessato alla storia e alla cultura della grande isola in cui era nato – scoprì che in un ospizio per vecchi voluto dalla Rivoluzione, viveva un cimarrón (uno schiavo nero fuggito dai suoi padroni e diventato un brigante sulle montagne dell’isola), Esteban Montejo. Che aveva allora centoquattro anni, portati bene grazie alla libera vita che aveva fatto. Ne registrò allora le memorie, che vennero pubblicate a Cuba nel 1966 e che suscitarono la curiosità di Italo Calvino, non solo per la simpatia e la solidarietà di tutta la sinistra verso quella Rivoluzione: anche se non lo si ricorda spesso, Calvino a Cuba era nato.

Cimarrón. Biografia di uno schiavo fuggiasco venne tradotto e pubblicato da Einaudi appena due anni dopo, per cura di due ottime ispaniste che erano anche delle compagne che in tanti abbiamo avuto care, Marina Piazza e Gabriella Lapasini – più o meno in quegli anni alle due si aggiunse Laura Gonzales, per mettere insieme un memorabile numero speciale dei Quaderni piacentini sull’America Latina e le sue guerriglie. (Le memorie del cimarrón Montejo raccolte da Barnet le ripubblica oggi Quodilibet nella collana delle Storie, a cura di Elena Zapponi. Di Barnet, Einaudi pubblicò anche la Canzone di Rachel, i ricordi non meno affascinanti di una cantante di «prima della Rivoluzione», e si spera che Quodlibet e Zapponi si occupino presto anche di quelle). Esteban Montejo ricostruisce per Barnet la storia della sua vita di schiavo, la sua ribellione e la sua fuga, la vita libera che condusse come un nuovo Robinson Crusoe sulle montagne dell’isola a contatto diretto con la natura, le sue «arti» della sopravvivenza.

Diversi anni dopo Barnet, una scrittrice nera statunitense, la narratrice e antropologa Zora Neale Hurston autrice del capolavoro Con gli occhi rivolti al cielo (tradotto anche come I loro occhi guardavano Dio), un romanzo che era anche saggio, un saggio che era anche romanzo), raccolse in Barracoon, tradotto per Feltrinelli, le memorie di un centenario che era stato uno schiavo portato dall’Africa negli Stati Uniti del Sud. Due «colleghe» di Hurston che riconobbero di doverle molto, Alice Walker del Colore viola, e Toni Morrison premio Nobel, ebbero ben presente il suo primo grande saggio-romanzo, che in Italia venne tempestivamente tradotto negli anni trenta da Frassinelli nella traduzione di Ada Gobetti (che firmava Ada Prospero perché il cognome da sposata e da vedova non era affatto ben visto dalla censura fascista).

Rileggere Cimarrón è un vero piacere, anche perché Barnet sollecitò Montejo a parlare diffusamente della natura in mezzo alla quale si era nascosto e gli ecologisti vi possono trovare ancora notazioni preziose. È un gioiello della letteratura cubana, una letteratura che ci ha dato con Paradiso di Lezama Lima e con i tanti romanzi e i tanti studi di musica di Alejo Carpentier due scrittori barocchi per eccellenza e per vocazione. Leggendo Cimarrón, seguendo Montejo, ci si conferma ancora una volta che aveva ragione il nostro Gadda quando scriveva, per rispondere ai denigratori del barocco, che barocco è il mondo.