Vorremmo partire proponendo una definizione ontologica del populismo, distinta da una sua descrizione fenomenologica. L’ontologia del populismo è caratterizzata dalla de-politicizzazione diffusa e crescente della società. La sua fenomenologia è vasta, ma i suoi tratti costitutivi sono il primato reale e simbolico del capo, l’individuazione di uno o più nemici esterni (nel caso italiano i migranti e l’Unione Europea), la propaganda insistente, articolata sulla base della semplificazione della complessità del reale attraverso slogan ripetuti.

Di questi fa parte l’enfasi sull’identità basata sull’appartenenza al territorio, alla tradizione, alla religione, eccetera. La resistenza e il rifiuto culturale della fenomenologia del populismo è debole e inefficace in ordine al suo sradicamento. La lotta può essere efficace solo a partire appunto da un processo di ri-politicizzazione della società. Tale processo non si deduce idealmente dai principi della Costituzione, ma è necessario sperimentarlo sul terreno. D’altronde la democrazia è storicamente virtuosa quando è un processo di sperimentazione delle risorse politiche attive atte a implementare tutti i valori della Costituzione. Di fatto non è mai sufficiente indicare il che degli obiettivi senza indicare il come del loro raggiungimento. È il come che permette di superare l’idealismo volontaristico dei fini. mettendo in atto le strumentazioni adeguate.

Ad esempio, a proposito della selezione della classe dirigente, la citazione nostalgica puramente concettuale del merito (icona linguistica rassicurante) è retorica, poiché è chiaro che tale selezione è adeguata solo se preceduta da processi strutturali di formazione, esercizio e messa alla prova del personale politico. Abbandonata in gran parte l’attività territoriale costante di militanti e dirigenti, come è il caso del tempo presente, la selezione avviene inevitabilmente in condizioni precarie. Spesso essa è piuttosto una scommessa sul futuro che una scelta garantita dalla affidabilità verificata del passato dei soggetti in questione. È realistico immaginarsi come uniche prestazioni di cittadinanza l’elezione attiva dei rappresentanti (cui partecipano al massimo i due terzi dei cittadini) e il pagamento delle tasse (come sappiamo spessissimo evase o eluse) per essere accreditati come portatori del diritto alla felicità sociale, se non addirittura a quella individuale?

Poiché è sempre equivoco parlare di dovere di cittadinanza, si può discutere di responsabilità della stessa, con una nuova impostazione del rapporto fra governati e governanti? Abbiamo, all’inizio di questo dibattito su il manifesto, introdotto una parola greca per introdurre un nuovo paradigma di questo rapporto: ISOCRAZIA, parola da interpretarsi, come già detto, non certo presupponendo uguale potere fra i cittadini, ma rivendicando il fatto che ugualmente tutti i cittadini dispongono a vario titolo di capacità di cittadinanza attiva, in termini di controllo civico, progettazione, tempo libero disponibile per il volontariato, autogestione, capacità di inchiesta, eccetera. Abbiamo sottolineato inoltre come l’ISOCRAZIA implichi la valorizzazione della dignità del cittadino in quanto attore della democrazia, che lo riscatta dal diffuso ruolo passivo di semplice consumatore di servizi.

(interventi precedenti sul tema dell’isocrazia: Pier Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga 19 dicembre 2020;- Franco Berardi Bifo, 29 dicembre 2020; Nadia Urbinati, in risposta su Domani 2 gennaio; Rocco Ronchi, 2 gennaio; Gianni Cuperlo, 5 gennaio; Pierluigi Bersani, 6 gennaio; Antonio Floridia, 7 gennaio; Andrea Garreffa, 8 gennaio; Rolando Vitali, 9 gennaio; Giacomo Marramao, 21 gennaio; Fabrizio Tonello, 2 febbraio; Moni Ovadia, 5 febbraio)