Nel polverone post-datagate va concisamente al nocciolo Michael Daly. Il suo lucido pezzo per il Daily Beast sottolinea il paradosso di un opinione pubblica scandalizzata per l’operazione Prism ma che allo stesso tempo non vede nulla di strano nel fornire volontariamente una valanga di dati alle corporation di internet. C’è grande scalpore, scrive Daly, per l’invasione della privacy da parte del governo ma la realtà è che nell’era dei social network la privacy da violare è rimasta ben poca. I connotati rilevati dallo stato sono in realtà già stati abbondantemente acquisiti dai vari Google, Amazon, Facebook e tutte quelle aziende il cui business model è fondato sulla vendita dei nostri dati “comportamentali” e di consumo ai loro inserzionisti.

Non è un segreto, sta chiaramente scritto nelle postille per gli utenti che quasi nessuno legge, che il prezzo per l’uso gratuito dei network o dei siti di commercio online è la resa incondizionata sulla privacy. Stranamente quando a spiare le nostre preferenze, i nostri amici e i nostri “mi piace”, perfino la nostra localizzazione via Gps, sono le multinazionali quasi nessuno trova da ridire – e la normalizzazione del data mining privato si estende in fondo anche alla sorveglianza governativa, dato che i sondaggi rivelano che il 59% degli Americani trova “giustificata” l’attività della Nsa.

Il bello è che ora a temere una ricaduta negativa sulla propria immagine a causa delle rivelazioni sono proprio i colossi digitali che preferirebbero che non si prestasse troppa attenzione a quanto sia capillare la loro intrusione nelle nostre vite.