Cosa ha pensato la famiglia di Ali an-Nimr apprendendo, qualche giorno fa, che le Nazioni Unite affideranno all’Arabia Saudita una posizione di rilievo nella tutela dei diritti umani, a dispetto delle denunce che Ong e associazioni umanitarie internazionali rivolgono da decenni al regno dei Saud? Possiamo immaginare la rabbia, la frustrazione che provano un padre, una madre, dei fratelli dopo una notizia del genere mentre attendono sgomenti l’esecuzione del proprio figlio di 21 anni.

Ali an-Nimr, denuncia da qualche giorno l’ong britannica Reprieve, sarà decapitato e il suo corpo crocifisso per aver partecipato a una manifestazione illegale e per aver fatto parte, secondo i giudici, di una «organizzazione terroristica», accusa questa che a Riyadh è rivolta a chiunque abbia il coraggio di criticare pubblicamente la petromonarchia e il wahabismo, la corrente islamica rigidissima che controlla la società saudita.

La «nostra alleata» nel Golfo

È l’ennesimo paradosso delle relazioni internazionali con l’Arabia saudita, Paese che viola sistematicamente i diritti della persona, a cominciare da quelli delle donne, che nega libertà politiche fondamentali, che interferisce nelle vicende interne di altri Stati della regione (certo non meno dei nemici iraniani), che pratica quotidianamente la pena di morte, che agisce a sostegno di movimenti estremisti salafiti (parenti stretti del wababismo) a danno delle correnti islamiste più moderate. Nonostante ciò è trattato con i guanti di velluto da Stati Uniti e da Europa. Per qualche ragione? Perchè Riyadh è una «nostra alleata» nella strategica area del Golfo, tiene giù il prezzo del petrolio, compra ogni anno armi prodotte in Occidente per vari miliardi di dollari e dialoga a distanza con Israele. Il premio Nobel per la pace e presidente americano Barack Obama, si prepara a consegnare altre armi sofisticate all’Arabia saudita, per placare il disappunto di re Salman per l’accordo sul programma nucleare iraniano firmato a Vienna due mesi fa. Il monarca saudita vuole anche la testa del presidente siriano Bashar Assad (l’unico dittatore presente in Medio Oriente secondo i democratici leader occidentali) ma l’operazione si è fatta, come dire, più complessa dopo l’intervento della Russia a sostegno di Damasco sotto pressione di decine di organizzazioni e gruppi jihadisti e qaedisti, dall’Isis ad al Nusra. Qualcuno si chiede ancora chi stia pagando queste decine di migliaia di «combattenti» del Jihad. La risposta la conoscono tutti da anni.

Ali an-Nimr, fu arrestato quando era ancora minorenne per aver partecipato ad una protesta contro il regno. I fatti risalgono al 2012, durante una manifestazione a Qatif, nelle province orientali del Regno, dove si concentrano i pozzi petroliferi e vivono circa 2 milioni 700 mila sauditi, colpevoli di non essere musulmani sunniti ma sciiti, quindi nemici «interni» dell’Islam secondo le gerarchie wahabite. Contro Ali sono state formulate accuse di ogni genere. Possesso di armi, lancio di bottiglie incendiarie contro le forze di polizia e anche uso del cellulare per organizzare la protesta. È stato descritto come un «mostro», un terrorista assetato di sangue da eliminare. La sua esecuzione dovrà essere un esempio per tutti gli altri «terroristi»: guai a mettere in discussione le politiche della monarchia. In realtà il giovane paga il fatto di essere il nipote di un famoso imam sciita, Sheikh Nimr Baqr al-Nimr, tenace oppositore dei governanti sunniti e anch’egli imprigionato. Ali infatti stava partecipando ad una manifestazione in favore dello zio, quando fu preso dalla polizia. Le accuse si basano sulla sua confessione che – denuncia Reprieve – fu estorta con torture. Durante il processo al ragazzo sarebbe stato negato un avvocato e quando ha denunciato le sevizie e gli abusi subiti, i giudici si sono rifiutati di prendere in considerazione le sue parole.

E l’Onu premia Riyadh

Sarà saltata sulla sedia anche la signora Ensaf Haidar alla notizia che all’ambasciatore saudita all’Onu Faisal bin Hassan Trad sarà assegnato un incarico a tutela dei diritti umani. La signora Haidar guida, dal Canada dove vive da quando ha ottenuto l’asilo politico, una campagna internazionale per la liberazione del marito, il blogger saudita Raif Badawi, incarcerato per aver «insultato» personalità politiche ed esponenti religiosi sul suo blog che incoraggiava soltanto il dibattito tra i cittadini su vari temi.

Lo scorso 9 gennaio Badawi ha ricevuto le prime 50 frustate davanti a una moschea di Gedda. Le successive serie sono state rinviate, ufficialmente per motivi di salute, in realtà per le pressioni internazionali. E potrebbero riprendere in qualsiasi momento perchè la Corte suprema saudita nei mesi scorsi ha confermato la pena.

Il bastone della flagellazione

Nella sua prima lettera dal carcere, pubblicata a marzo dal settimanale tedesco Der Spiegel, Badawi raccontò di essere «miracolosamente sopravvissuto a 50 frustate» e di essere stato «circondato da una folla plaudente che gridava incessantemente Dio è grande». «Sono stato sottoposto a questa crudele sofferenza solo perché ho espresso la mia opinione», aggiunse il blogger. In Arabia saudita la flagellazione è generalmente effettuata con un bastone in legno chiaro, con colpi distribuiti su tutta la schiena e le gambe, che lascia lividi ma che, il più delle volte, non lacera la pelle. Una raffinatezza.

Riyadh respinge le critiche e denuncia la «campagna mediatica attorno al caso» di Raif Badawi. Lo scorso maggio l’ambasciata saudita a Bruxelles ha inviato una dichiarazione ufficiale ai membri del Parlamento Europeo per condannare qualsiasi «interferenza nei suoi affari interni», sostenendo che «alcune parti internazionali e i media cercano di violare e attaccare il diritto sovrano degli Stati». Nessuno sconto ai dissidenti perciò. Lo sa bene l’avvocato Walid Abulkhair, legale di Raif Badawi e attivista dei diritti umani, finito anche lui in cella nel 2014 per «incitamento dell’opinione pubblica». Abulkhair era stato inizialmente condannato a cinque anni di reclusione, pena prima sospesa e poi inasprita dalla Corte penale di appello, specializzata in casi di «terrorismo».