Né gli elementi della trama né le vibrazioni della lingua bastano a rendere conto della tensione che si sprigiona da ogni romanzo di Don DeLillo, il quale sembra via via imporre – a se stesso prima e al lettore poi – un ampliamento della grammatica della conoscenza capace di estendere i limiti del plausibile, forzare la legittimità delle nostre percezioni, mettere in dubbio la fenomenologia del reale, accogliere la concretezza di fatti proiettati in un futuro anteriore, lasciando tuttavia che i personaggi rimangano ancorati a vite ordinarie, soffrano bisogni comuni, ma soprattutto condividano le paure e il senso del pericolo che invadono le nostre vite quotidiane.

Ed è proprio in questo contrasto tra l’immanente e il trascendente che si gioca parte del fascino dei romanzi di DeLillo, non pochi dei quali sigillati da un titolo non a caso allusivo di uno stadio terminale: End Zone, Point Omega, Underworld, e ora Zero K (in uscita martedì per Einaudi, ottima traduzione di Federica Aceto, pp. 240, euro 19,00) una sigla che nella realtà della fisica sta per la più bassa temperatura raggiungibile, mentre nella finzione del romanzo è il marchio dei cosiddetti «messaggeri», quelli che scelgono di affidarsi alla criogenesi, ovvero al congelamento del loro corpo, prima che esso venga alterato dalla malattia.

Tra questi c’è Ross Lockhart, un uomo che ha accumulato ricchezze stratosferiche analizzando il profit impact dei disastri naturali, e ora è fra i principali finanziatori del progetto Convergence, la «fusione, respiro dopo respiro, della fine e del principio». Morte e rinascita si saldano in quella che Ross descrive come una «tecnologia basata sulla fede. Ecco cos’è – riflette. Un altro dio. Non tanto diverso, alla fine, da alcune nostre divinità del passato. Solo che … questo è vero, mantiene le promesse.»

Dopo avere investito di un’aura sacrale due emblemi del capitalismo avanzato, le armi e la spazzatura, destinati a venire seppelliti nell’underworld di rifugi antiatomici o in discariche sotterranee, ora DeLillo tenta una teologia della tecnica, che permetta «di morire un po’ per poi vivere in eterno». Il miraggio nietzschiano del superuomo trova nel programma Convergence una nuova incarnazione: «Noi vogliamo ampliare i confini di ciò che significa essere umani – ampliarli per poi superarli – dice una delle guide incaricate di illustrare il progetto –… La morte è una creazione culturale, non una rigida determinazione di ciò che è umanamente inevitabile». Perciò, per accogliere la tecnologia che renderà possibile il risveglio alla vita, è stato edificato, in una regione compresa tra il Kirghizistan e il Kazakistan, un conglomerato di edifici che sembrano sorgere dal deserto come una visione, una delle tante cui DeLillo ispira i suoi libri. Molto in profondità, al termine di una serie di livelli numerati, una nuova regione dell’underworld ospita enormi camere sepolcrali dove sono conservati i corpi congelati, un luogo che il monaco preposto a confortare i morituri descrive come «al riparo dalla fine stessa del mondo.»

Incontri, progetti, apparizioni, luoghi fisici e mentali, tutto è filtrato dallo scetticismo di Jeffrey Lockhart, figlio di Ross e voce narrante, che viene invitato dal padre a raggiungerlo alla vigilia del suo drammatico distacco dalla seconda amatissima moglie Artis, trentaquattrenne devastata dalle conseguenze della sclerosi multipla, ora in attesa di venire sottoposta a criogenesi finché la tecnologia non sarà in grado di riparare i suoi organi malati e restituirla a una nuova vita. «Sarebbero venuti a prenderla – si tormenta Jeff. L’avrebbero portata in un ascensore e poi giù in uno dei cosiddetti livelli numerati. Lei sarebbe morta, per induzione chimica, in una camera sotterranea con la temperatura sotto lo zero, tramite procedure precisissime guidate da un delirio collettivo, dalla superstizione, dall’arroganza, dall’autoinganno».

Ma Artis non la vede così: saranno gli artifici della tecnica – crede – a conferirle una inedita autenticità: «Rinascerò in una realtà più profonda e più vera. Linee di luce brillante, la pienezza di tutte le cose materiali, un oggetto sacro».
Torna, anche in questo romanzo, la coincidenza tra deriva del senso e approdo religioso, come se ciò che esorbita i confini della ragione non potesse che venire accolto da un atto di fede: quella di DeLillo è la vocazione laica a una forma di misticismo, ciò che giustifica, anche, il suo insistito ricorso all’arte come veicolo per la trasfigurazione del banale. I lunghi corridoi silenziosi che Jeff percorre nella sua visita al progetto Convergence mostrano chiuse porte colorate, mentre sulle pareti vengono proiettati video apocalittici: «Era l’arte che accompagna le ultime cose – riflette Jeff – semplice, onirica e delirante. Tu sei morto, questo diceva.»

Ma il figlio di Ross Lockhart, un nome che si scoprirà inventato, abita il mondo modesto della concretezza quotidiana, e ad essa tornerà: una parentesi del romanzo lo descrive a New York, insieme alla sua compagna e al figlio Stak da lei adottato. Gesti quotidiani, interni senza pretese, e un costante riandare al ricordo della madre, alla inquadratura del suo capezzale il giorno della morte, quando sulla soglia della stanza sostava come una apparizione la vecchia amica appoggiata al suo bastone. Sembra che quella immagine funzioni per Jeff come un aggancio alla concretezza della vita, un antidoto affettivo al distacco dalla ragione. Ed è perciò che vorrebbe vincere la riluttanza del padre a pronunciare il nome della madre, quel nome che lui si ostina a non ricordare perché associato a una presenza ormai vaga, semmai ostile, allontanata «quando il matrimonio morì».

Sempre, nei romanzi di DeLillo, personaggi smarriti cercano di saldarsi alla vita nominando ad alta voce gli oggetti che li circondano: così Nick, il protagonista di Underworld, insegue la padronanza del linguaggio per riscattarsi dal delitto commesso; e Mr Tuttle – la misteriosa presenza nella casa della Body Artist – rende incerta la sua appartenenza al reale proprio perché incapace di nominare gli oggetti più banali. Anche i nomi, per DeLillo così importanti da costituire il titolo di un suo romanzo dell’82, sono associazioni di lettere che devono rendere conto della fisionomia del personaggio, suonare come suona il suo carattere, assecondarne la tempra, non stridere con le sue inclinazioni.

Un capitolo intitolato alla moglie di Ross, Artis Martineau, interrompe l’andamento narrativo per sommare frammenti di un monologo interiore alternati a una voce fuori campo, fornendo a DeLillo il luogo narrativo dove fare precipitare alcuni tra i suoi temi più ricorrenti: il ripiegarsi sulle proprie parole saggiandone la consistenza sonora prima ancora che semantica, la concezione del tempo mutuata quasi letteralmente da Agostino, filosofo presente fin da Americana, il suo primo romanzo; e, ancora, la distinzione tra avere un corpo e essere un corpo, cara all’antropologia di Plessner, autore tuttavia ragionevolmente estraneo allo scrittore americano.

Anche Eric Packer, il miliardario protagonista di Cosmopolis, avrebbe voluto trascendere i limiti del suo corpo e guadagnare una sorta di immortalità attraverso le chances della tecnologia, trasferendosi in un brano musicale o in un dato di pura informazione. Ma qui il progetto cambia scala e coinvolge il futuro dell’umanità, o almeno di coloro che potranno permetterselo: «Tutti vogliono possedere la fine del mondo» recita la prima riga di questo romanzo inquietante, magnificamente costruito e attraversato da notevoli bagliori linguistici, ma solo «gli uomini che si sono fatti da soli – riflette Jeff – si disfano da soli».

E così, Ross non si limita a finanziare il progetto che assicurerà una nuova vita alla amata Artis, ma non tollerando di separarsi da lei quando il suo corpo verrà congelato, intende seguirla. Poi ci ripensa e torna alla vita di sempre, ma alla fine lo strazio vince sia i deboli echi della sua ragione sia l’indignato scetticismo del figlio Jeff: Ross tornerà in quel deserto dove stanno «costruendo il futuro», e consegnerà il suo corpo sano alla criogenesi, mentre i filologi che lavorano per Convergence vagheggiano la messa a punto di una lingua avanzata, che sarà insegnata ad alcuni e impiantata in altri, una lingua «che ci permetterà di esprimere cose che ora non siamo in grado di esprimere, di vedere cose che ora non siamo in grado di vedere, di vedere noi stessi e gli altri in modi che mirano a unirci, ad ampliare ogni possibilità». Non quelle del romanzo, tuttavia, già ontologicamente illimitate, come anche questo ultimo lavoro di DeLillo – né fantascienza né distopia – dimostra.