È indicativo che i problemi generati dagli incidenti nucleari dell’11 marzo 2011 nella centrale nucleare di Fukushima riemergano dal silenzio in cui i media li hanno relegati solo in modo sporadico, mentre la tragedia si protrae da 10 anni e realisticamente occuperà ben più dei 30-40 anni che la Tepco e il governo giapponese vorrebbero far credere.

È da almeno due anni che incombe la minaccia di sversamento in mare di oltre un milione di tonnellate di acqua contaminata che dopo l’incidente, che ha messo fuori uso i sistemi di raffreddamento in circuito chiuso, è stata pompata nei noccioli per raffreddarli e poi raccolta in più di mille serbatoi di stoccaggio situati nel sito dell’impianto (Giorgio Ferrari, il manifesto, 11.09.2019).

Il problema è gravissimo, ma è miope sottostare la gioco degli allarmi episodici, occultando la drammaticità della situazione. Da quel fatidico 11 marzo 2011 tutti i provvedimenti assunti sono stati sbagliati, alimentando l’illusione che il sito della centrale si possa decommissionare nel futuro: con l’avvallo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica la quale ha nel proprio Dna la promozione dell’energia nucleare.

Per Fukushima la sola decisione sensata (se ci può essere qualcosa di «sensato» nei programmi nucleari) dovrebbe essere di intombare i tre reattori incidentati, come si è fatto per il reattore di Chernobyl: potrebbe essere un monumento a futura memoria dell’insipienza umana, o dell’ambizione dell’apprendista stregone di controllare qualsiasi fenomeno della natura. È drammatico doverlo ricordare nei frangenti in cui ci troviamo per non aver voluto ascoltare le minacce pandemiche denunciate da decenni.

Questa è la cosa di fondo che si deve ricordare per commentare la notizia che ci arriva dal Giappone, quando si riaffacciano le proposte di un rilancio dei programmi nucleari spacciandoli come carbon free, occultando le inevitabili ricadute dell’energia nucleare (anche trascurando le armi nucleari che oggi più che mai minacciano di generare una guerra devastante).

Nessun paese al mondo ha realizzato un deposito «definitivo» per i residui radioattivi che rimarranno pericolosi per la società umana e per l’ambiente per migliaia di anni perché, ieri come oggi, alla lobby nucleare interessa solo la costruzione di nuove centrali. E in Italia è arrivato al pettine da pochi mesi il nodo del deposito delle modeste quantità (rispetto ad altri paesi) di residui radioattivi prodotti o lasciati dai nostri limitati programmi nucleari.

Se ovviamente non meravigliano le lobby nucleari, che fanno il loro mestiere, allarma che la sirena del nucleare carbon free faccia breccia anche in certi ambienti ecologisti o in movimenti che si mobilitano per l’emergenza climatica. E non fa eccezione il super-ministro per la transizione tecno-ecologica Cingolani che promuove quella fusione nucleare che da 60 anni viene propagandata come realizzabile nel decennio successivo ma che richiederà comunque decenni per fornire energia commerciale, troppo tardi per rimediare alla crisi climatica, ma alimentando intanto la pericolosissima illusione che possiamo continua a consumare energia a piacimento.

Da Fukushima, come da Chernobyl (di cui fra una paio di settimane ricorrerà il trentacinquesimo anniversario) dovremmo imparare una volta per tutte che i disastri nucleari avvengono localizzati in paesi specifici, ma gli effetti coinvolgono anche altri paesi, per cui le decisioni di programmi nucleari doverebbero coinvolgere direttamente la comunità internazionale.