Da una settimana la Geo Barents attende un porto di sbarco. Dopo diversi salvataggi tra il 19 e il 21 gennaio a bordo ha 439 persone. Tra loro 13 donne e 117 minori, di cui cinque molto piccoli. La più giovane ha appena due mesi. In mare fa freddo e ormai dall’altro ieri dal ponte si vedono le coste siciliane. «Dalle autorità italiane non arrivano comunicazioni», dice Riccardo Gatti, responsabile dei soccorsi con una lunga esperienza alle spalle. 

Riccardo Gatti sulla Geo Barents

Com’è la situazione a bordo?

Ci sono persone che hanno subito torture, stupri e violenze. Portano nella pelle e nell’animo traumi e le ferite. Abbiamo individuato casi di malnutrizione e malattie croniche. Quindi la situazione era già critica di per sé. Ma ogni ritardo nell’assegnazione del porto di sbarco aumenta difficoltà e sofferenze, anche perché le persone sono tante persone e gli spazi ridotti. Purtroppo è un copione che continuiamo a vedere. 

I naufraghi come stanno reagendo all’attesa?

Fanno domande tutti i giorni, vogliono sapere che succede. L’equipaggio li mantiene aggiornati, nei limiti del possibile. Evidentemente il nervosismo aumenta perché c’è già un malessere di base. Siamo a poche miglia dall’Italia. L’Italia si vede. Mentre parlo ho le coste siciliane davanti agli occhi. Ma non ci fanno sbarcare. Nelle navi in standoff tra le persone si diffonde la sensazione di essere rifiutati.

È fine gennaio, fa freddo in mare?

Siamo riusciti a metterci a riparo a sud della Sicilia prima che arrivasse il brutto tempo nella zona dei soccorsi. Qui il tempo è bello: significa che non piove e c’è il sole, ma fa freddo. Soprattutto di notte. In coperta abbiamo sistemi che cercano di riscaldare un po’ l’ambiente, ma non è mai abbastanza. Anche questo aggiunge sofferenza. 

Tra le persone a bordo c’è qualche storia che ti ha colpito?

Raccontano il circolo di violenze subite in Libia: detenzione, trafficanti, tentativo di attraversare il mare, cattura della guardia costiera e da capo detenzione. Un ragazzo ci è passato tre volte. Nei centri le persone vengono picchiate davanti ai cellulari connessi con le famiglie, per convincerle a pagare. Fa male continuare a sentire queste storie perché significa che non sta cambiando niente e perché questo sistema corrotto è alimentato dall’Italia e dall’Europa. Un’altra situazione che colpisce è la presenza di bambini e minori. C’è una bebè di appena due mesi. È un campanello d’allarme sapere che il nostro paese non se ne prende cura immediatamente, visto che siamo ancora senza porto. 

A quante richieste siete arrivati e cosa hanno risposto le autorità?

Due a Malta, che ha rotondamente negato qualsiasi coinvolgimento, e quattro all’Italia. La prima subito dopo i dinieghi di La Valletta. Da Roma ci hanno detto soltanto di aver inoltrato la domanda all’autorità competente, cioè il ministero dell’Interno. Abbiamo anche contattato telefonicamente per sollecitare aggiornamenti e velocizzare la cosa. Perché siamo qua senza ricevere alcuna comunicazione.

Alcuni naufraghi sono sulla nave da una settimana. Stiamo tornando ai tempi di Matteo Salvini al Viminale?

Spero proprio di no. Quelle erano attese più lunghe, nonostante anche dopo si sia dovuto aspettare. Ciò che lascia basiti è che prima le cose andavano in modo completamente diverso. Quando 6-7 anni fa le Ong erano coordinate dalla guardia costiera queste attese non c’erano. Il porto di sbarco veniva dato, come logico e come da normativa internazionale, subito. C’era solo il tempo di navigazione, di 24-36 ore, per raggiungere la costa. Adesso sembra che la normalità sia rimanere in mare giorni. Poi i giorni diventano settimane. Gli standoff sono fuori dagli obblighi normativi e dalla logica di cura delle persone bisognose. 

L’autorizzazione deve arrivare dal ministero dell’Interno. Volete dire qualcosa alla ministra Luciana Lamorgese?

Ribadiamo il bisogno di far sbarcare le persone il prima possibile, altrimenti l’operazione di soccorso non si può considerare chiusa. È un dovere giuridico ed etico. I naufraghi devono poter toccare terra il prima possibile in un luogo in cui abbiano pieno accesso ai loro diritti.