E’ il gennaio del 1984 quando alla Pinacoteca provinciale di Bari s’inaugura una mostra fotografica: trecento scatti per venti autori. Per la piccola sigla Il Quadrante esce anche un libro, che di quelle foto ne sceglie ottantasei; in copertina ha una carta geografica dell’Italia, di quelle allora appese in ogni aula scolastica, e un titolo semplice quanto allusivo, Viaggio in Italia. Ai nomi dei fotografi si aggiungono quelli di uno studioso, Arturo Carlo Quintavalle, e di uno scrittore, Gianni Celati. Non sono citati in copertina i curatori; insieme a Gianni Leone ed Enzo Velati, ideatore e leader riconosciuto dell’operazione è però Luigi Ghirri.

In quel momento, ricorda Quintavalle, non si pensava che potesse avere il significato assunto in seguito, ma oggi si può consentire con lui quando conclude che «con Viaggio in Italia la storia della fotografia è cambiata». Per dirla con la fenomenologia di Luciano Anceschi, fu quella – per la fotografia non solo italiana – un’istituzione (come una ventina d’anni prima, in poesia, I Novissimi). A quarant’anni da quel turning point, Corrado Benigni riesce nell’impresa di offrirne una sintesi critica informata e scorrevole: Viaggiatori ai margini del paesaggio Ghirri, Barbieri, Basilico, Chiaramonte, Cresci, Guidi, Jodice, La nave di Teseo, pp. 203, 57 ill. col. f.t., € 22,00).

Un «viaggio» fu la lunga fase preparatoria, almeno dall’81: quando Ghirri comincia a discutere coi suoi compagni dell’immagine da cercare (per maggiori dettagli ci si rivolge a un libro di vent’anni fa di Roberta Valtorta, Racconti dal paesaggio, accompagnato da un dvd che riproduce le foto del libro, mai ristampato per complesse questioni di diritti). A Benigni senz’altro verrà rimproverata l’esclusione di tanti autori: mancano Gianantonio Battistella, Vincenzo Castella, Andrea Cavazzuti, Vittore Fossati, Carlo Garzia, Shelley Hill, Gianni Leone, Claude Nori, Umberto Sartorello, Mario Tinelli, Ernesto Tuliozi, Fulvio Ventura e Cuchi White; sorprende soprattutto l’assenza di un capitolo su Celati, in una trattazione letteraria come la sua. Ma la sintesi ha i suoi costi, e i sette fotografi trattati da Benigni sono davvero, in tutti i sensi, i più rappresentativi. Un viaggio è anche quello successivo dei partecipanti: per diversi di loro anche una «rimozione», forse inevitabile, di quell’esperienza, dice Quintavalle nella bella conversazione conclusiva.

Sin dall’inizio assente fu Roberto Salbitani, che negli anni settanta di Ghirri era il sodale più stretto insieme a Giovanni Chiaramonte (il fotografo d’origine siciliana scomparso lo scorso ottobre), il quale si sfilò convinto che quello non fosse «per niente un viaggio», al massimo «un viaggio stando fermi». È un punto chiave: non a caso Celati (che nel libro dell’84 pubblica uno dei diari cinque anni dopo raccolti in Verso la foce) non parlerà mai di «scrittura di viaggio» preferendo definire, i suoi, «racconti di osservazione». Una still life di matrice metafisica sospende il tempo in una dimensione «concettuale» (Cresci), «arcaica» (Jodice), «illusionistica» (Barbieri), «mistica» (Chiaramonte) o «fenomenologica» (Quintavalle vi insiste per Ghirri, ma vale a maggior ragione per Guidi). Evita Viaggio in Italia la partecipazione soggettiva, emotiva, ideologica o esistenziale, al paesaggio umano e sociale attraversato (non a caso la geografia della copertina è fisica, non storico-politica). Cioè appunto l’idea di viaggio che connotava l’esperienza germinale, da Quintavalle indicata a Ghirri con le mostre da lui curate a Parma negli anni settanta: cioè le «campagne» dell’americana Farm Security Administration, che spedì fotografi come Walker Evans e Dorothea Lange nel Sud della Grande Depressione. I più di quarant’anni passati da allora si sentono eccome, quando nel breve e spavaldo testo di presentazione si legge di un intento «a-ideologico, (…) in una posizione equidistante dalle facili critiche come dalle apologie». L’inopinata fortuna di Viaggio in Italia corrisponde, come si vede, al trionfo del postmodernismo italiano.

Proprio Viaggio in Italia, peraltro, mostra bene i presupposti modernisti di ogni poetica postmodernista che non si voglia mera restaurazione: l’adesione all’«Italia dei margini», negletta dalla grande pittura di paesaggio o dalla monumentalità della tradizione Alinari, è una «democratizzazione» a-gerarchica dei luoghi che ha il suo interprete più radicale nella città «senza qualità» (in senso musiliano, cioè «senza caratteristiche») di Guido Guidi, ma i cui precedenti risalgono alla joyciana epifania del dettaglio. Nel ’41 un acutissimo Guido Piovene aveva messo a fuoco (è il caso di dire), primo in Italia, la rivoluzione del Valore dell’attimo operata dalla fotografia, cioè la «sensazione» poi codificata da Jack Kerouac negli Americans di Robert Frank: «che una cosa valga l’altra» (e chissà allora che il titolo Viaggio in Italia non fosse solo ironico nei confronti di Goethe, ma anche memore del Piovene del ’57…).

È forse l’aspetto platonizzante di Viaggio in Italia a spingere Benigni (poeta, per parte sua, non privo di esperienze iconotestuali) a impegnativi paralleli poetici; laddove pare a me che la matrice di quasi tutti fosse di natura narrativa. Un precedente pour cause poco citato è Immagini della fotografia europea contemporanea, curato da Chiaramonte per Jaca Book nell’83 (cioè all’indomani della sua adesione a Comunione e Liberazione), al quale partecipano molti dei fotografi inclusi nel Viaggio dell’anno dopo. Proprio questo confronto evidenzia però il salto di piano compiuto da Ghirri: ricorda Chiaramonte che se la sua era una semplice antologia, quello dell’amico emiliano era «un racconto»: il che fa capire meglio la sua scelta di coinvolgere uno scrittore come Celati.

Un genere narrativo caro a Ghirri come a diversi suoi sodali era la fantascienza. Alla fine di Verso la foce vi allude appunto Celati, evocando «guerrieri spaziali» che «debbono abbandonare la terra divenuta inabitabile». E davvero la neo-metafisica di Viaggio in Italia pare anticipare le attuali fantasie di spopolazione e rewilding di certo ecologismo radicalmente anti-specista. Ma si congedava Gianni malinconico: «noi aspettiamo ma niente ci aspetta, né un’astronave né un destino».

Se un «futuro» ha pre-figurato Viaggio in Italia è quello della stessa fotografia: forse nessun episodio della sua storia come questo ha imposto, più che un «gusto», un senso comune.