Era vana la speranza che l’accordo sulla creazione di un consiglio presidenziale di transizione ad Haiti, annunciato lunedì in Giamaica dopo le dimissioni di Ariel Henry, bastasse a riportare la calma nel paese. Jimmy “Barbecue” Cherizier, il potente capo della coalizione di bande criminali “Viv Ansanm” aveva subito spazzato via ogni illusione: la coalizione, aveva dichiarato, «non riconoscerà alcun governo risultante» dalle riunioni tenute in sede Caricom (la Comunità caraibica), in quanto «è responsabilità del popolo haitiano scegliere i leader che governeranno il paese».
Principio in realtà sacrosanto – continuano a essere gli Stati uniti a imporre e a togliere le autorità ad Haiti -, se non fosse che a sostenerlo è il massimo rappresentante di quelle bande paramilitari che, dopo aver assunto il controllo dell’80% di Port-au-Prince, non ci pensano proprio a farsi estromettere dal processo decisionale. E a rimetterci è sempre la popolazione, stretta nella morsa, da un lato, di governi subordinati a interessi stranieri e, dall’altro, di gruppi paramilitari impegnati a mettere a ferro e fuoco il paese caraibico.

Che la situazione resti grave, malgrado qualche timido segnale di ritorno alla normalità come la riapertura delle banche e di diverse attività commerciali, lo dimostra la decisione delle Nazioni unite – dopo quella analoga già adottata dagli Usa – di evacuare da Haiti il personale non essenziale, «a causa della instabile situazione delle sicurezza». Con una precisazione: che, cioè, i dipendenti incaricati delle «attività vitali», tra i circa 1.500 finora presenti nel paese, continueranno il loro lavoro. Un lavoro che prevede, per assicurare «la fluidità degli aiuti», anche la costruzione di un «ponte aereo» tra Haiti e la vicina Repubblica Dominicana, il cui governo ha da giorni chiuso le frontiere per timore di uno sconfinamento delle violenze, bloccando così le vie di fuga per i civili haitiani.

Deciso a proteggere il suo paese dalla crisi haitiana, il presidente dominicano Luis Abinader non aveva del resto nascosto minimamente la sua contrarietà, mandando alla comunità internazionale, colpevole di non intervenire in maniera tempestiva, un segnale ben preciso: «Poi non vi lamentate delle azioni che dovremo adottare».
Comincia intanto a prendere forma il consiglio presidenziale che dovrà guidare la (nuova) transizione e che sarà composto da sette membri votanti, scelti da altrettante realtà politiche e sociali, e due osservatori. Una scelta, tuttavia, che si sta rivelando tutt’altro che semplice. Si sa però che a farne parte sarà di sicuro l’economista Fritz Jean, votato dall’Accordo di Montana, un’ampia coalizione di organizzazioni socio-politiche che pure aveva in passato risvegliato molte speranze.

Escluso invece dal consiglio, di cui non può far parte chi ha riportato condanne, l’ex leader golpista e collaboratore della Cia Guy Philippe, il quale, tornato ad Haiti dopo aver scontato una pena di sei anni negli Usa per riciclaggio di denaro, era deciso a dar vita a una «rivoluzione per il popolo e solo per il popolo».
Porte chiuse anche per tutti coloro – e sono moltissimi – che si oppongono alla contestata missione multinazionale di appoggio alla sicurezza, la quale potrà prendere il via solo quando si sarà insediato il nuovo consiglio, avendo il presidente del Kenya William Ruto posto tale condizione per inviare nel paese il suo contingente di polizia. Non senza prima avvisare, è chiaro, il segretario di Stato Usa Antony Blinken, il quale in realtà ha molta fretta di riportare l’ordine ad Haiti, temendo, per le prossime elezioni presidenziali negli Stati uniti, una fuga di voti democratici da parte della diaspora haitiana e di altre comunità migranti caraibiche.