Quello che sta succedendo a Tripoli è un fatto storico senza precedenti. Di torture, stupri, omicidi, detenzioni arbitrarie, commistione tra autorità e trafficanti avevamo visto e sentito. Ma da 28 giorni sul piatto c’è qualcosa di inedito: migliaia di rifugiati, stanchi di subire ogni genere di soprusi, si sono auto-organizzati e stanno lottando. Dopo i rastrellamenti in diversi quartieri di Tripoli che l’1 ottobre hanno portato alla detenzione di 4/5 mila persone, si sono accampati davanti all’Unhcr in cerca di riparo. Hanno creato un’assemblea per prendere decisioni e un gruppo di coordinamento con i media per far sentire la loro voce. Vogliono una cosa soltanto: l’evacuazione verso un paese sicuro.

IERI DAL PRESIDIO permanente, con l’aiuto di Amnesty e Mediterranea, hanno tenuto una conferenza stampa online per «rompere il muro di silenzio». Di fronte a giornalisti italiani, attivisti europei e un vescovo hanno detto: «Continueremo questa battaglia fino all’ultimo respiro, finché non ci uccideranno tutti. Non abbiamo nessun altro posto dove andare. Abbiamo il diritto di vivere, sentirci sicuri, essere liberi».

Durante l’intervento di David, originario del Sud Sudan, sui telefonini scorrono in diretta le immagini del mega-accampamento: persone ammassate sotto tende di fortuna, stese su giacigli ricavati sopra i marciapiedi o appoggiate ai muri delle case circostanti. «Siamo stati dimenticati da tutti», esordisce. Denuncia che dall’inizio della protesta i rifugiati non ricevono assistenza medica, né beni di prima necessità. Ieri erano 2.700, tra cui 300 donne e altrettanti bambini. Non ci sono bagni e le condizioni igieniche stanno peggiorando. Questo crea tensioni con gli abitanti della zona. Tra i libici solo qualcuno li comprende e sostiene.

Mercoledì sera una macchina di miliziani è passata sopra un ragazzo eritreo di appena 17 anni, schiacciandolo. Il ferito è stato portato privo di sensi in una clinica e poi all’ospedale centrale di Tripoli. Dove è morto. È la seconda vittima dall’inizio delle proteste. Il 12 ottobre un 25enne sudanese era stato ammazzato in mezzo alla folla da uomini a volto coperto. Il 23 del mese, invece, il fotoreporter libico Saddam Alsaket è sparito dopo un servizio sulla protesta.

I RIFUGIATI che protestano sono sopravvissuti al cerchio infernale che circonda le loro vite in Libia: detenzione, torture, fughe, tentativi di attraversare il mare, intercettazioni della cosiddetta «guardia costiera», di nuovo detenzione. Dopo i rastrellamenti di inizio ottobre la paura di finire in prigione o essere uccisi per strada si è moltiplicata.

Al cerchio delle sofferenze si sovrappone quello delle responsabilità. Le autorità libiche eseguono: catturano i migranti e li rinchiudono nei centri. Le responsabilità, però, stanno dall’altro lato del Mediterraneo. «Gli abusi che abbiamo ascoltato sono conseguenza degli accordi Italia-Libia del 2017», dice Ilaria Masinara, di Amnesty International.

MERCOLEDÌ l’inviato speciale Unhcr per il Mediterraneo centrale e occidentale, Vincent Cochetel, ha ripreso in un tweet le richieste di protezione e sicurezza dei manifestanti scrivendo però che l’agenzia Onu non può evacuare i 45mila rifugiati bloccati nel paese nordafricano. «Tocca alle autorità libiche proteggerli in conformità ai loro obblighi internazionali», ha detto.

Sono proprio quelle autorità, però, a metterli in pericolo. E non solo perché Tripoli non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ma perché i finanziamenti che riceve dai paesi dell’Unione Europea servono a bloccare, a qualsiasi costo, i disperati che tentano di fuggire.

«L’Italia e l’Europa hanno la responsabilità di questa situazione e adesso devono risponderne portando al sicuro chi rischia ogni giorno la vita. L’unica soluzione è un’evacuazione di massa dalla Libia», ha concluso Luca Casarini di Mediterranea.