L’ipocrisia che regna sovrana a meno di due mesi dalle elezioni europee ha portato i partiti della maggioranza italiana di destra ad astenersi dal voto al parlamento di Strasburgo sul nuovo patto di stabilità e crescita che entra in vigore oggi. Nel frattempo il loro governo ha votato lo stesso patto a Lussemburgo durante il Consiglio agricoltura di ieri. Un esito scontato dato che già l’Ecofin dei ministri dell’economia aveva dato il suo via libera. Questa doppia mossa serve ai partiti della destra ad andare all’incasso dei voti urlando contro l’Europa, mentre l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha dovuto inghiottire un documento che metterà nei guai il paese nei prossimi anni.

Nonostante la contraddizione Meloni continuerà a vendere l’illusione che la prossima Commissione Ue grazierà l’Italia e i suoi conti disastrati in virtù di un significativo cambio degli equilibri politici. Per farlo basterà «votare Giorgia», nella speranza che diventi l’ago della bilancia. Una scommessa politicistica azzardata che però non cancellerà i problemi.

Oltre le fumisterie dei retroscena, quello che resta sul tavolo è una procedura di infrazione della Commissione Europea che potrebbe essere decisa a partire dal 19 giugno, ovviamente dopo la scadenza elettorale. Perché anche a Bruxelles c’è chi, come la presidente della commissione Ue von der Leyen, spera di essere votata e cerca di essere meno impopolare di quello che è. La procedura per deficit eccessivo (7,6 sul Pil nel 2023) costerà almeno 10 miliardi di euro che, probabilmente, ricadranno sulla prossima legge di bilancio che al momento è solo fumo. Quello che si sa è che al governo servono almeno 20 miliardi per ripagare le sue promesse, a cominciare dal taglio del cuneo fiscale.

Con l’entrata in vigore del nuovo patto di stabilità nel 2025 le cose si complicheranno ancora. Anche perché non ci sarà una crescita significativa e mancano gli investimenti. Il nuovo «patto» li prevede in minima parte e sono inadeguati rispetto alle priorità della doppia transizione verde e digitale o delle spese per la difesa invocate in un clima bellicista. Ecco il guaio principale: per l’Ufficio parlamentare di bilancio italiano (Upb) le regole Ue potrebbero richiedere una correzione di 0,5-0,6% di Pil all’anno tra il 2025 e il 2031 (10-12 miliardi). Il governo Meloni dovrà preparare tra giugno e settembre un piano strutturale di bilancio nazionale pluriennale che conterrà l’impegno a tagliare debito e deficit, gli investimenti e le famose «riforme». Questo significa che, come in tutti i paesi con rapporto debito/pil sopra il 90% (noi siamo vicino al 140%) è previsto un taglio minimo dell’1% ogni anno. Dunque privatizzazioni, disarticolazione del Welfare e quant’altro. In più Meloni & Co. dovranno creare un «cuscinetto» pari all’1,5% del Pil una volta scesi sotto il 3% del deficit. Quest’anno dovremmo essere al 4,3%. Per rispettare tali gravosissimi obiettivi il governo potrà chiedere proroghe fino a sette anni.

Il cinismo elettorale della destra ha strappato un triennio di relativa tregua: dal 2025 al 2027 – quando si voterà alle politiche in Italia – la Commissione Ue potrà infierire di meno. Gli interessi che l’Italia sta pagando sul debito a causa del rialzo dei tassi della Bce saranno scontati in fattura . «Hanno venduto l’Italia ai falchi dell’austerity» hanno detto i Cinque Stelle. Il Pd ha criticato il «compromesso» e ha rivendicato il piano del commissario Ue all’economia Gentiloni travolto dai governi che contano. A questo capestro saranno legati i prossimi governi italiani.