Il Senato degli Stati uniti sta valutando in seconda lettura il pacchetto di aiuti straordinari da circa 100 miliardi voluto da Biden. Ora manca solo la firma del presidente, attesa per la fine della settimana e l’Ucraina avrà ufficialmente i suoi 61 miliardi di dollari di forniture belliche. Anche se, come abbiamo chiarito in occasione del voto favorevole della Camera di sabato scorso, della somma complessiva poco più di 7 miliardi andranno subito a Kiev sotto forma di armamenti. Ma si tratta comunque di una boccata d’ossigeno per i reparti ucraini al fronte e per le difese aeree delle città bombardate.

Ma anche dal nostro lato dell’Atlantico si possono notare chiaramente gli effetti dell’accelerazione imposta dalla guerra in Ucraina sulla produzione e il commercio di armi. L’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Ue, Josep Borrell, ieri è tornato a parlare della necessità di «fare il punto sulla capacità degli stati membri dell’Ue di aumentare il sostegno all’Ucraina». Negli ultimi tempi Borrell ha più volte sottolineato come i paesi europei debbano investire di più in armi, in quanto «l’80% delle forniture belliche inviate all’Ucraina sono acquistate all’estero». Di queste, l’80% provengono dagli Usa. L’insistenza del capo della diplomazia europea sulla necessità di investire di più nel settore militare deriva da due fattori: uno interno e uno esterno. Quello interno rima con la volontà di molti alti funzionari comunitari e dei politici più convintamente europeisti di voler formare un esercito europeo. Una Difesa comune che risponde agli allarmi per la «minaccia russa» o all’instabilità percepita da due anni a questa parte. Senza contare le paure per l’eventuale disimpegno statunitense in Europa evocato da Trump alla fine dell’anno scorso. «Siamo stanchi di pagare per la loro sicurezza, si difendano da soli» aveva dichiarato il tycoon in apertura di campagna elettorale. Sebbene le dichiarazioni di Trump siano state mitigate dagli stessi repubblicani, l’effetto sui vertici europei non è da sottostimare. Il fattore esterno è legato ai sistemi di alleanza nati dopo la II Guerra Mondiale. La Nato, che racchiude quasi tutti i governi europei tranne Irlanda, Svizzera e Austria, ha richiesto ai suoi membri di portare le spese militari oltre il 2% del Pil annuo. Un aumento giustificato dalla necessità di riapprovvigionare i depositi dopo due anni di forniture all’Ucraina e, soprattutto, di non perdere la forza di deterrenza dell’Alleanza in un contesto globale sempre più incerto dove tutti, come evidenziato dal rapporto Sipri 2024, si stanno riarmando. Per alcuni stati, come Italia, Grecia e Romania, il raggiungimento di tale soglia è ancora lontano. Altri, al contrario, hanno sposato appieno la politica del riarmo.

Per ora il protagonista del riarmo europeo è la Polonia. Tra il 2022 e il 2023 Varsavia ha fatto registrare il maggior incremento proporzionale di spese militari di tutto il continente, arrivando al 3,8% del Pil, anche se l’obiettivo dichiarato è il 4%. Spendere di più per le forze armate e gli armamenti è diventato talmente prioritario per la Polonia che a inizio aprile il presidente polacco, Andrzj Duda, si è persino spinto fino a spronare gli altri membri della Nato a seguire l’esempio del suo Paese utilizzando come spauracchio la minaccia di un eventuale attacco russo nel prossimo futuro. Duda lunedì ha anche sollevato la questione della «deterrenza nucleare» dichiarando: «Se i nostri alleati decidono di schierare armi nucleari nel quadro della condivisione nucleare sul nostro territorio per rafforzare la sicurezza del fianco orientale della Nato, siamo pronti a farlo». Ovvero, la Polonia è pronta a ospitare le batterie di missili nucleari.

Poche ore dopo gli ha risposto il suo primo ministro, Donald Tusk, il quale non solo si è mostrato sorpreso e infastidito dalla fuga in avanti di Duda, ma ha anche aggiunto: «Tengo molto a che la Polonia viva in sicurezza, a che sia ben armata, ma vorrei anche che ogni iniziativa venga, prima di tutto, molto ben preparata dalle persone responsabili», e per questo il premier attende «con impazienza un incontro con il signor presidente Duda». In Polonia, come in Italia, il presidente della Repubblica è formalmente il capo supremo delle forze armate e agisce «tramite» il governo e i ministri della Difesa e degli Esteri. Al centro della diatriba, che è più di un’incomprensione ma denota una vera e propria differenza di visione politica, ci sono le diverse posizioni dei due leader. Duda attualmente si trova in Canada dopo aver incontrato l’ex presidente (e candidato) Donald Trump e aver partecipato a una riunione all’Onu. A proposito delle armi nucleari, il capo di stato ha affermato che è da «un certo tempo» che Varsavia e Washington ne parlano, in quanto «ho già sollevato questo argomento più volte». Oltre ad aver trasferito nuove batterie di armi nucleari tattiche in Bielorussia, come annunciato da Putin lo scorso giugno, secondo Duda: «la Russia sta militarizzando sempre di più l’enclave di Kaliningrad e sta trasferendo le sue armi nucleari in Bielorussia», ovvero al confine nord-orientale e orientale del territorio polacco. Ma è evidente che, al di là delle preoccupazioni nate dal conflitto russo-ucraino, la destra polacca, rappresentata da Duda dopo la sconfitta elettorale di Morawiecki contro Tusk, ha l’aspirazione di diventare la potenza militare preponderante in Europa centro-orientale e sta facendo di tutto per attrarre Usa e Nato nel suo progetto.

Com’è ovvio, non poteva mancare la risposta russa che, tramite il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, ha fatto sapere che Mosca «adotterà le misure necessarie per garantire la sicurezza nazionale se la Polonia ospiterà armi nucleari». Il ministro degli Esteri Lavrov ha aggiunto che «l’Occidente si trova sull’orlo di uno scontro militare fra potenze nucleari irto di conseguenze catastrofiche». Lavrov ha inoltre definito «pericoloso» il fatto che i Paesi occidentali che possiedono le armi nucleari (Stati Uniti, Regno Unito e Francia) siano tra i principali alleati e fornitori di armi convenzionali dell’Ucraina. «Per Mosca» ha aggiunto Lavrov «tale sostegno comporta gravi rischi strategici che aumentano il livello di pericolo nucleare».