«Quelli sono gli anni in cui il Pci mi si è radicato dentro». Proprio così ha cominciato Emanuele l’altro giorno, quando D’Alema ci aveva riunito attorno a un tavolo (digitale) per un dialogo sul partito nel centenario della sua nascita: tre generazioni, il più giovane chi ci aveva convocato, di mezzo Occhetto, e poi noi tre, i pochi novantenni che siano stati nella direzione del partito ancora sopravvissuti, Tortorella, Macaluso e io. «Radicato dentro»: è una frase che credo possiamo ritrovare solo sulla bocca di quelli della nostra generazione, quella che ha militato fra guerra e dopoguerra, ma poi fino agi anni ’50 e oltre; poi ci si è limitati ad aderire,iscriversi,operare, cose diverse.

Io, così come i più vecchi del Manifesto, con Emanuele abbiamo avuto idee differenti, lui si proclamava sempre riformista, noi non proprio rivoluzionari, ( ci ha salvato sempre il senso del ridicolo) ma comunque per una radicale aternativa. Ma ci siamo sentiti sempre vicini, Emanuele – l’ho ricordato molte volte – fu uno dei rarissimi che quando venimmo radiati ci salutava ancora affettuosamente quando ci incontrava per la strada. Dipendeva dal suo carattere socievole, ma anche dalla consapevolezza di avere in comune una cosa preziosa, questo radicamento che faceva sì che ogni volta che proponevamo qualche cosa, si doveva partire dalla «questione sociale». Se non lo facevi, voleva dire che non eri di sinistra.

La sua collocazione sociale aveva in effetti reso subito chiara la sua scelta: figlio di un ferroviere manovale, a Caltanisetta, città di zolfatari, la sola scuola prevista l’istituto minerario, i primi comunisti incontrati un compaesano partigiano al nord, un operaio che, in carcere non per motivi politici ,aveva conosciuto Terracini. E poi, subito, nel primo gruppetto che comincia a riunirsi, Leonardo Sciascia, che nel partito non entrerà mai ma lo frequentava. Perché il Pci era così.

Macaluso ha ricoperto molti incarichi di primo piano nel Pci e nella Cgil, in Sicilia dove a lungo ha diretto la camera del lavoro di Caltanisetta, a Roma nella segreteria del partito con Togliatti, poi di nuovo in Sicilia, a capo del regionale di Palermo. Palermo ha avuto sempre un ruolo cruciale nella formazione del gruppo dirigente del Pci: è stata quasi una tappa obbligata nella carriera dei giovani candidati al vertice, una specie di esame di maturità cui sottoporre quelli su cui si era ancora incerti. Per meritarsi i galloni bisognava verificare se eri abbastanza sveglio per essere un buon segretario di una regione così difficile.

E così, spediti da Roma, ci sono passati prima Bufalini, poi Occhetto, l’ultimo fu Folena. I siciliani avevano naturalmente un altro itinerario. Macaluso di gran lunga il più inventivo: alla fine degli anni ’50, il boom economico italiano già vincente al centro nord, al sud, e in particolare nelle isole, invece, nessun sviluppo industriale autoctono. Ma i grandi gruppi pubblici erano approdati per costruire quelle che furono chiamate «le cattedrali nel deserto», perché attorno ai grandi stabilimenti non c’era niente, né infrastrutture adeguate, né proliferare di nuove iniziative economiche. La borghesia locale restava tagliata fuori, come accadeva nei paesi del terzo mondo. Sulla base di questa analisi, sacrosanta, venne sviluppata una strategia ingegnosa ma discutibile e infatti accesamente discussa nel partito: stabilire un’alleanza con la borghesia locale, in quanto dipendente come quelle dei paesi ex coloniali, e perciò possibili protagoniste di un ruolo «nazionale».

Artefice della linea, Emanuele Macaluso. Per una fase vincente: Milazzo, esponente di punta della Dc, si stacca dal partito e crea nell’isola i cristianosociali, di qui governi appoggiati da eterogenee alleanze. Persino Ingrao, se non ricordo male, appoggiò l’operazione, passata alla storia come «milazzismo». (Ricordo bene quella stagione perché girai la Sicilia per uno dei primi reportage della mia carriera, per Nuova Generazione). Non durò a lungo, le contraddizioni di classe si fecero subito sentire, e l’esperimento tramontò, lasciando in eredità al Pci, come indipendente di sinistra, Ludovico Corrao, prezioso artefice, dopo il terremoto del Belice, della nuova Gibellina. Anche questa esperienza prova come era Emanuele Macaluso: giustamente irrequieto e mai appagato dalla piattezza politica. Soprattutto intelligente.

In questi ultimi anni eravamo diventati più amici. Non solo io, un po’ tutti i compagni della nostra area. Accomunati soprattutto dalla desolazione per l’esito del Pd. Per l’ultima volta l’abbiamo visto quando abbiamo radunato tutti gli amici a Piazza S.S. Apostoli per dare l’addio a Rossana. Emanuele dal palco ci ha regalato l’affascinante racconto della scoperta della Sicilia da parte di Rossana, dove lui l’aveva invitata e dove lei non era mai stata.