Un restauratore che abbia messo le mani sulla Cappella Sistina, il Duomo di Orvieto o su un dipinto di Leonardo, è probabile che in Italia resti disoccupato. A lungo pure. Esodato o, meglio, «esiliato». Non perché non ci sia lavoro – sarebbe un paradosso qui – ma perché costretto a rimanere in finestra, a guardare altri soggetti all’opera, pur se non qualificati. Dovrà fare i conti con una nuova identità: quella di una figura professionale che ha dato lustro al suo paese e che oggi è emarginata. Con tanto di Cesare Brandi gettato alle ortiche.

Così, un consorzio come Arké, che presenta nel suo curriculum, interventi sulla facciata di san Luigi dei Francesi, Palazzo Farnese, Trinità dei Monti e le fontane di piazza Navona (a Roma) e ha appena terminato di lavorare sugli affreschi di Matteo Giovannetti (nel Palazzo dei Papi, ad Avignone), da qualche anno non riesce più ad aggiudicarsi le gare di appalto dei restauri di monumenti e opere architettoniche. Per quale motivo? Perché imprese come queste vengono scavalcate dalle OG2, quelle generali per l’edilizia.

Quando sono stati tolti i ponteggi al Colosseo, le arcate interessate dai nuovi lavori hanno mostrato gli scarsi risultati. All’inizio, le prime tre erano state affidate a ditte specialistiche, con un cantiere pilota e le indicazioni delle metodologie corrette da seguire. La differenza balza agli occhi (ma si può «carpire» in qualsiasi calendario turistico del 2015 con le immagini dell’Anfiteatro Flavio).

Il problema, infatti, non è solo pulire un monumento, ma «come» questa operazione viene condotta. Ancora una volta, rispetto al patrimonio, è l’atteggiamento culturale (o l’ignoranza) a dettare legge. Un atteggiamento che si trasforma in economico: se sull’immediato i margini di guadagno sono più alti per una impresa generale di edilizia (costretta, peraltro, ad assumere restauratori o a produrre subappalti), un lavoro fatto male mette in serio pericolo il bene stesso. Mina alle basi la sua futura conservazione e, un giorno, si dovrà spendere di più per «metterlo in sicurezza», sempre che sia ancora possibile.

Non è una questione da poco. E non c’è riforma di Franceschini né proclami sulla valorizzazione che tengano se non si risolve questo «nodo». Il Colosseo, proprio per la sua rappresentatività, è diventato il protagonista di una battaglia condotta dai restauratori. La loro arma è stata una lettera pubblica – primi destinatari il ministro Dario Franceschini e il Presidente del Consiglio di Stato (che respinse il ricorso sulla legittimità delle ditte edili nel restauro, ndr). Il dibattito è aperto: i beni culturali rientrano nella categoria dei «beni comuni», oltre a costituire un palinsesto della memoria, da tramandare.

Manuela Micangeli, presidente del consorzio Arké è amareggiata, ma anche decisa a proseguire nella battaglia. «Il Colosseo doveva essere un esempio mondiale: perché buttarlo via così? I restauratori italiani sono una categoria riconosciuta internazionalmente, abbiamo insegnato noi ed esportato ovunque la pratica di questo mestiere. Il lavoro sull’Anfiteatro Flavio avrebbe dovuto essere ottimale, il più bello di tutti…».

Invece, non è andata proprio così. Il Colosseo mostra un restauro non corretto?

Anche se il travertino è materiale resistente, ogni superficie lapidea è porosa e sensibile. La domanda è: per quale ragione è stato fatto un bando dedicato alle imprese OG2, composta da mastri e geometri che sovrintendono ai lavori, lasciando fuori le imprese specialistiche? Le ditte generali di edilizia, oltretutto, sono costrette ad assumere restauratori per svolgere il compito affidatogli. Pensano che si risolva così il gap iniziale, ma non basta ricorrere a una persona qualificata. È importante il livello omogeneo dell’intervento, serve un esperto che abbia una visione d’insieme.

Il mantenimento su grandi aree di un livello omogeneo è difficilissimo. Con la nebulizzazione e le spazzole meccaniche è facile sia «sfondare» che fermarsi troppo in superficie. La parte scoperta (dove c’erano i ponteggi, ndr) dell’Anfiteatro Flavio dimostra che il monumento è rimasto macchiato. Alcuni punti sono troppo puliti, altri troppo sporchi. Non sono raccordati, non c’è nessuna armonia e ne risente anche l’architettura. Le tecniche per la pulitura, oggi, sono molteplici: non esiste solo la nebulizzazione. Oltretutto, l’uso dell’acqua va ben dosato perché, se vigoroso, porta alla superficie ruggini, pezzi di ferro, rischia di far scoppiare altri materiali che spesso si trovano nelle architetture antiche. Insomma, scortica la «pelle» che riveste il marmo. Se poi si passa la spazzola di saggina con forza, si rischia di cancellare qualsiasi traccia storica, compresa quella della lavorazione stessa del monumento.

Nei casi più delicati, si può utilizzare l’atomizzazione. C’è anche la seppiolite al posto dell’acqua: è un’argilla con alto potere assorbente, che serve per estrarre le macchie. Sono diverse, quindi, le sostanze non tossiche per il monumento a cui ci si può rivolgere.

Qual è il giusto livello di pulitura in un’opera d’arte?

Quello che conserva la parte di autenticità. Se dal marmo viene grattata via del tutto la patina, diventa troppo bianco, perde il suo invecchiamento naturale, i rilievi e la leggibilità dei contrasti. Anche la conservazione subisce un contraccolpo e va in sofferenza: togliendo la prima pelle, quel monumento sarà esposto, diverrà più fragile e il suo deperimento sarà più veloce. Resisterà meno agli attacchi del tempo. La nebulizzazione usata male fa danni. La delicatezza di un restauratore è importante anche per quanto riguarda l’approccio conoscitivo. Da un restauro vengono fuori notizie fondamentali che, a un occhio meno attento, possono sfuggire. Se poi addirittura quelle informazioni si cancellano, il procedimento è irreversibile e tutto va perduto.

Cosa è accaduto per arrivare a questa progressiva «espulsione» del restauratore?

Avevamo già presentato un ricorso per il caso del Tempio di Antonino e Faustina. Fino alla metà degli anni Novanta, i lavori nell’area archeologica dei Fori (il restauro dell’Arco Settimio, di Costantino) venivano affidati a imprese specialistiche di restauro. Il punto nevralgico resta, quindi, l’affidamento riconosciuto a ditte edili, che poi subappaltano a restauratori, dato che non hanno – al loro interno – quel genere di competenza. Il Tempio Antonino ha marmi policromi romani, è un’architettura che presenta particolari pregiatissimi, ma il Consiglio di Stato rigettò il nostro ricorso sulla base di una relazione fornita da un gruppo di architetti, che avallò la procedura di gara.

Le imprese di restauratori sono formate da squadre di specialisti che lavorano insieme da molti anni, hanno alle spalle commissioni importanti e grande esperienza. Non c’è motivo di lasciare morire questa categoria d’accellenza.