108 arresti all’Emerson college di Boston, cariche di cavalleria e 34 arresti all’università del Texas di Austin, arresti alla Emory in Georgia, occupazione dell’università di Humboldt nel nord della California, dove è occupata anche Berkeley, storico epicentro di proteste pacifiste dagli anni ’60. Il movimento studentesco contro la strage di Gaza non si ferma, si allarga e rende ineluttabile la questione morale sull’annientamento palestinese nella superpotenza che l’eccidio lo copre e lo finanzia.
Le università mantengono il pugno duro con sospensioni, espulsioni e licenziamenti anche di docenti solidali. Gli amministratori si trincerano perlopiù dietro giustificazioni securitarie e legaliste, gli accampamenti solidali contravverrebbero al divieto di pernottamento in tende, le manifestazioni sono impedimento alle lezioni, provocano disagi e «pericolo» per gli studenti.

DI FATTO le proteste sono in ogni caso rigorosamente pacifiche, a base di teach-in, dibattiti e lezioni autogestite – a Berkeley sono stati invitati a parlare i dissidenti di Google (50 licenziati per aver protestato i contratti aziendali con Israele). Degenerano regolarmente, invece, con l’intervento duro della polizia che usa poi i disordini come pretesto per gli arresti. «Gli studenti hanno minacciato la sicurezza degli agenti» ha dichiarato il rettore della Usc di Los Angeles (93 arrestati), singolare valutazione dell’amministratore che ha contribuito ad innescare l’ondata di proteste censurando preventivamente il discorso di commiato di una laureanda musulmana che avrebbe condannato i genocidi.

La posizione di Usc conferma invece la natura politica della repressione nel nome di «limiti necessari» alla libera espressione, solitamente motivata dal pericolo di antisemitismo (fra le parole proibite «intifada»). L’accusa è ripetuta (a scapito della forte presenza nel movimento di giovani ebrei) per oscurare la tragedia nella Striscia.
«L’antisemitismo non verrà tollerato dal Texas», annunciava il governatore Greg Abbott agli studenti di Ut che reclamano disinvestimento universitario da Israele, ed una condanna dell’eccidio. «Le questioni di politica internazionale non sono di competenza delle università», ha rincarato Daniel Diermaier, presidente della Vanderbilt University in Tennessee. È stato subito smentito da un video messaggio in cui Benjamin Netanyahu chiedeva la repressione ancora più forte delle proteste («branchi antisemiti») negli Stati uniti.

AL CORO di condanna istituzionale si è aggiunto mercoledì il presidente della camera Mike Johnson, recatosi sul campus della Columbia per sgridare di persona gli studenti. «È ora di finire questa follia», ha detto, chiedendo le dimissioni della rettrice troppo «inefficace» ed invocando l’intervento della guardia nazionale. È stato subissato dai fischi.
Alla condanna moralista bipartisan, il movimento oppone invece una prorompente e trasversale obiezione morale alla guerra, l’economia di guerra, la logica e l’egemonia totalizzante della guerra. Recuperando il ruolo storico dell’attivismo studentesco nella traiettoria politica degli ultimi 60 anni, l’attuale generazione trova nell’opposizione ad una insostenibile ingiustizia il motivo di proporsi come possibile e necessario germe di un partito terzo, alternativo all’accelerazione reazionaria globale. La misura del suo successo sempre più evidente nella forza della repressione che affronta.

OLTRE A FORZA morale, il movimento inizia a mostrare un’efficace pratica politica sul campo. Nelle primarie parlamentari di martedì in Pennsylvania, Summer Lee, deputata afroamericana, membra dello Squad progressista fra i principali parlamentari filopalestinesi, è stata sfidata da una avversaria finanziata da lobby pro Israele. Volontari ebrei antisionisti di IfNotNow hanno bussato porta a porta e contribuito alla sua vittoria.

La linea Biden continua invece ad essere di ispirazione pilatesca, composta in parti uguali di sostegno (molto concreto) ad Israele, parole di «preoccupazione» per le vittime civili, condanne all’antisemitismo e «comprensione» per la solidarietà con la sofferenza palestinese. Un cerchiobottismo pre elettorale che il movimento rende meno sostenibile. Gli ultimi sondaggi rivelano che il 55% degli Americani ormai si dice contrario all’operato di Israele, con solo il 36% a favore.