L’incontro del presidente eletto Donald Trump con i direttori dell’intelligence americana, responsabili di avergli recapitato il «dossier russo» non deve essere stato fra i più cordiali, dato che almeno uno di loro, James Clapper, aveva da poco appreso che il capo lo avrebbe sostituito a giorni.

Di certo il rapporto non ha impressionato il neoeletto presidente che nelle ore successive ha continuato imperterrito a twittare il suo sprezzante ludibrio. Prima: «L’unica ragione per cui si parla di hackeraggio è che i democratici non sono stati capaci a difendersi e sono imbarazzati dalla batosta».

In effetti il rapporto – o almeno il sunto desecretato reso pubblico ieri – si legge come il trattamento di un serial fantapolitico di secondo ordine. Intanto, come sottolineato da Trump, la Cia e altre 16 agenzie che vi hanno collaborato, affermano che non è stata rilevata una effettiva manomissione delle operazioni di voto – al massimo i servizi russi o i loro contractors hanno ottenuto «accesso informatico a distretti elettorali di svariati stati».

Il rapporto ammette che non vi sono elementi certi per determinare un effettiva distorsione dei risultati. Invece gli autori si concentrano sulle infiltrazioni informatiche (costanti almeno dal luglio 2015), l’hackeraggio dei server del partito democratico e della campagna Clinton da cui sono state sottratte email private disseminate per volontà diretta di Putin con l’intento di favorire Donald Trump.

Il rapporto desecretato non contiene dettagli «tecnici» presumibilmente scritti nella versione top secret, ma si legge invece più come una tesina o un saggio sociologico.

I servizi descrivono la «capillare campagna di disinformazione» imbastita dalla Gru e altre agenzie russe a base di leaks strategici, fake news e social media con l’ausilio di una rete di «troll prezzolati». Almeno nella versione pubblica, il rapporto è più un corsivo editoriale che un dossier di spionaggio, con una Cia «giornalistica» e quasi altrettanto impotente davanti alle post-verità di internet.

Come in un qualunque articolo di Paul Krugman, gli agenti si lamentano di varie sigle a operatori responsabili degli hack: Gru,e Guccifer 2.0 e DCLeaks.com e la Wikileaks di Assange che avrebbero funto da distributori di elementi dannosi ai democratici.

E dedicano ampio spazio soprattutto a Rt (Russia Today). Alla visione di questo canale russo di news internazionale, gli agenti hanno apparentemente dedicato centinaia e centinaia di ore, passando al vaglio servizi, reportage e migliaia di video virali su youtube giudicandoli «tendenziosi» e «non favorevoli alle politiche Usa».

Non è necessario essere antirussi per giudicare filo-putiniani alcuni dei contenuti di Rt (ad esempio sulle operazioni russe in Siria) ma lamentarsi di un tg non è esattamente lo scandalo che molti anticipavano. Di contro i servizi segreti americani che hanno firmato il rapporto hanno seri e storici problemi di credibilità.

A cominciare da Clapper, un bugiardo matricolato che sotto giuramento ha negato al congresso le intercettazioni della Nsa solo poche settimane prima che Edward Snowden svelasse la mastodontica entità di sorveglianza «domestica» della sua agenzia.

C’è quindi un innegabile gusto nell’assistere allo scontro aperto fra un neoeletto presidente che si toglie lo sfizio di cantare alla Cia le sacrosante accuse che le ha tradizionalmente indirizzato la sinistra. Al di là della imprevedibile instabilità che promette, lo spettacolo di un sistema che si ritorce su sé stesso, contiene una dose di liberatoria «catarsi».

Al netto di tutto però questo resta da spiegare l’incontrollabile impulso «rossobruno» di Donald Trump, il suo perfetto allineamento agli istinti filoputiniani che accomunano le destre nazionalpopolari e suprematiste europee e la Alt Right americana.

Rimangono, per gli americani che contemplano inquieti il suo imminente insediamento, da appurare gli intrecci di affari ed interessi dell’oligarca newyorchese che ha portato a Mosca il concorso di Miss Usa, che ha designato a segretario di stato il presidente della Exxon intimo di Putin, e a ministro della difesa un altro che è stato seduto al tavolo del presidente russo. Che esibisce la stessa preoccupante vocazione all’autoritarismo.

In una raffica di tweet Trump ha dichiarato: «…solo le persone stupide pensano sia negativo avere rapporti migliori con la Russia!» e «…forse assieme potremo risolvere molti problemi del mondo». La dottrina geopolitica twittata 140 caratteri dalla Trump Tower presagisce davvero un ribaltamento dell’ordine internazionale? Se così fosse lascerebbe intravedere un radicale spostamento del baricentro globalista verso Pechino, con Usa, Russia ed Europa sempre più arroccate su un isolazionismo nazionalpopulista.

Per il momento fra Washington, Mosca e New York si delinea l’ennesimo paradosso: una destra filorussa e una «sinistra» allineata con la Cia.

Con il forte sospetto che possa in definitiva rappresentare soprattutto una copertura per il colpo di mano estremista di una destra repubblicana turbocapitalista e oligarchica che dietro il circo Trump si sta impadronendo delle leve del massimo potere mondiale.