Abbandono istituzionale, aumento dei fenomeni di deprivazione alimentare, maggiore segregazione: è stato anche questo il lockdown per le popolazioni rom e sinti che vivono negli insediamenti formali e informali in Italia. Le difficoltà ci sono per tutti, certo, ma l’obbligo di restare in casa ha un significato diverso quando la propria abitazione è una baracca di pochi metri quadrati o una roulotte. Sin dall’inizio delle misure anti-contagio le associazioni di rom e sinti e quelle che con loro sono attive da anni hanno lanciato un doppio allarme: il rischio che quei luoghi sovraffollati e spesso senza acqua corrente potessero diventare dei focolai; l’immediata difficoltà economica di chi sopravvive alla giornata. L’allarme non è stato raccolto dalle istituzioni e da nord a sud il principale sostegno è arrivato dalla solidarietà.

A ROMA la Onlus 21 luglio ha condotto una ricerca tra il 14 e il 17 marzo in cinque insediamenti formali della capitale e dintorni evidenziando le situazioni di precarietà igienico-sanitaria ed economica. Mancanza di acqua, di dispositivi di protezione individuale, assenza di operatori sanitari e impossibilità per i bambini di seguire la didattica a distanza sono gli elementi che hanno reso ancora più dura l’emergenza e a cui il Comune di Roma non ha fatto fronte. «Il problema più importante è stato l’impossibilità a muoversi per un periodo prolungato: le famiglie vivono di lavori informali che garantiscono la sussistenza giorno per giorno», spiega Carlo Stasolla, presidente della 21 luglio. «È grave poi – continua – che la sindaca Raggi affermi che la protezione civile controlla i campi e soddisfa le richieste di cibo. Solo di recente è stato distribuito qualche buono spesa, ma in numero assolutamente insufficiente». Per sostenere almeno i più piccoli, l’associazione distribuisce ogni sabato, partendo dal quartiere di Tor Bella Monaca, 250 pacchi alimentari per bambini tra 0 e 3 anni.

A MILANO lo scoppio della pandemia ha avuto un duplice effetto sulle persone che vivevano in accampamenti informali. «Qualcuno ha occupato casa, come unica soluzione possibile, ma la maggior parte sono ritornati in Romania», racconta Cesare Mariani, volontario dell’associazione Naga. «È sembrato che per la prima volta l’intervento del Comune assumesse una connotazione universale, ma alla fine le risorse sono state insufficienti», continua Mariani.

ANCHE A NAPOLI l’intervento istituzionale è stato estremamente ridotto. «Nei confronti dei rom non c’è una politica seria e in questa fase difficile il mutuo aiuto ha offerto le risposte migliori», sostiene padre Alex Zanotelli. A Bari, anche grazie a un appello dell’associazione Eugema e dei volontari Corsina Depalo e Matteo Magnisi, il comune ha fornito un parziale sostegno alimentare al piccolo campo attrezzato vicino al quartiere Japigia. Proprio lì alle elezioni comunali di maggio scorso è nata la candidatura di Ligia e Daniel Tomescu.

FORTUNATAMENTE, almeno per ora, il virus sembra non essere esploso in maniera massiccia in quelli che sono veri e propri «ghetti etnici» risultato di politiche sbagliate o assenti. L’unico focolaio accertato in una comunità rom è quello che avrebbe avuto origine da un funerale svolto il 30 aprile a Campobasso. Sull’episodio sono in corso indagini. L’Opera Nomadi del Molise ha parlato di un serio errore di alcune famiglie locali ma ha anche chiesto di evitare generalizzazioni e «campagne scandalistiche». In questo caso, comunque, si parla di una comunità antichissima che non vive nei campi.

LE STIME del Consiglio d’Europa indicano tra 120/180 mila le persone rom, sinti e caminanti presenti in Italia. Secondo il rapporto annuale 2018 redatto dalla 21 luglio, sono circa 25 mila coloro che vivono in insediamenti formali o informali. L’associazione li definisce gli «ipervisibili» perché è sui loro corpi che si concentra l’attenzione sociale e mediatica. Si dimentica così che «tra le ville kitsch delle famiglie di rom abruzzesi a Roma ed i nylon di tende improvvisate di rom bulgari a Foggia, ci sono altre 20 etnie, diverse per dialetti, tradizioni e condizioni sociali che compongono l’universo romanì». In questa minoranza tutt’altro che omogenea, molte persone hanno sofferto il lockdown in maniera simile al resto della popolazione, forse con le maggiori difficoltà che derivano dal persistente stigma sociale e dalla connessa fragilità economica. Tra loro c’era Stanije Jovanovic, rom serbo di 33 anni, abitante di una casa popolare nel quartiere romano del Quarticciolo. È morto di Covid-19 il 25 marzo. «Lo abbiamo conosciuto in palestra e averlo perso così ci lascia un vuoto difficile da decifrare», ha scritto su Facebook il Red Lab, collettivo impegnato in attività mutualistiche a sostegno di tutto il quartiere fin dall’inizio della pandemia