Sulla carta, il Pd i conti con il Jobs act dovrebbe averli già fatti. Almeno dal 2022, ben prima dell’avvento di Schlein, i principali dirigenti del partito avevano preso le distanze da quella stagione, ammettendo gli errori compiuti sulla precarietà e sui licenziamenti. Enrico Letta in una intervista al manifesto del settembre 2022, alla vigilia delle politiche, parlò di «superamento» del Jobs act e aggiunse che «la stagione del blairismo è consegnata alla storia».

Durante la campagna per le primarie del 2023 Schlein definì quelle norme «un errore» e così fece anche il suo rivale Bonaccini: «Intervenire sull’articolo 18 penso sia stato un errore secco. Bisogna andare oltre il Jobs Act e va scritta una nuova stagione di riforme che si concentri sul garantire sviluppo e politiche industriali e combattere il lavoro precario».

TUTTO RISOLTO? NIENTE affatto. I referendum proposti dalla Cgil (che mirano a colpire le norme sui licenziamenti e i contratti a termine) rischiano di creare più di un problema tra la nuova guardia, ben disposta verso l’iniziativa di Landini, e i cosiddetti riformisti, tra cui spiccano molti ex ministri di Renzi come Delrio e Madia. Ieri uno dei big della minoranza, Lorenzo Guerini, ha lanciato un altolà: «Se fossi al posto di Schlein non firmerei quei referendum, ma non mi permetto di dire quello che dovrebbe fare la nostra segretaria». Delrio, per vie ufficiose, ha fatto sapere ai vertici del Nazareno di «non dover fare nessuna abiura». Madia ha chiesto alla leader di non infilarsi in «un referendum sul passato».

SCHLEIN, IL 1 MAGGIO, si è trovata in una situazione complicata. A Portella della ginestra, con la Cgil, c’era anche Giuseppe Conte, che si è precipitato a un banchetto a firmare i quattro quesiti. Lei non lo ha fatto, pur avendo lasciato il Pd proprio negli anni del renzismo trionfante e contro le scelte su lavoro e scuola. Il giorno dopo, intervistata su La7, ha spiegato che «ogni iniziativa del sindacato la guardiamo con grande attenzione, nel rispetto della sua autonomia. Mi aspetto che tante e tanti del Pd daranno una mano in quella raccolta firme».

FINO ALLE EUROPEE di giugno è difficile che la segretaria si spinga oltre, per evitare tensioni interne: dopo invece, nella lunga estate dei banchetti, la sua firma potrebbe arrivare. Nessuno si sente di escluderlo. In avanscoperta è andato Arturo Scotto, ex Articolo 1, capogruppo dem in commissione Lavoro, che firmerà nei prossimi giorni: «Occorre una bonifica radicale degli istituti del mercato del lavoro che producono precarietà e bassi salari», spiega. Un concetto che «abbiamo scritto nella mozione unitaria dedicata al 1 maggio firmata insieme ad Avs e M5S, presentata in Parlamento tre settimane fa e purtroppo bocciata dalla maggioranza. Dentro c’è anche il superamento della disciplina sui licenziamenti illegittimi e dunque del Jobs act. Posizione peraltro scritta nero su bianco anche nel programma del Pd nel 2022».

Nella mozione, votata dai parlamentari Pd, si impegna il governo a «contrastare ogni forma di precarietà attraverso verso una vera e propria “bonifica” normativa, anche sulla base delle recenti sentenze della Corte Costituzionale in materia di licenziamenti illegittimi».

NELLA SEGRETERIA, Marco Sarracino, responsabile sud, dice di essere pronto a firmare i referendum. Ci sta pensando anche il titolare degli Esteri Peppe Provenzano, che è stato da subito fiero oppositore delle riforme renziane ma ora non vuole fare fughe in avanti: «Ne discuteremo nel partito». Alessandro Alfieri, uno dei due bonacciniani in segreteria, invita a «non riaprire ferite del passato». Anche Andrea Orlando potrebbe essere della partita. In Parlamento c’è già una sua proposta di legge per modificare le norme sui licenziamenti sulla base delle indicazioni della Corte costituzionale.

L’ex ministro del Lavoro ritiene «utile» la raccolta firme dei sindacati ma ha spiegato di avere qualche dubbio sullo strumento referendario, visto che negli ultimi anni il quorum non si è mai raggiunto. Il rischio è l’effetto boomerang che si avrebbe nel caso di un flop nelle urne. Tema che ha animato la discussione anche dentro la Cgil, prima del voto del parlamentino interno che ha sancito il fischio d’inizio della corsa referendaria.