Non fu certo l’unico fattore ad accelerare il tracollo del sistema sovietico affetto da innumerevoli storture e dalla sclerosi permanente della sua elefantiaca struttura burocratica, ma è cosa nota il ruolo della forsennata corsa al riarmo.

Non fu certo l’unico fattore ad accelerare il tracollo del sistema sovietico affetto da innumerevoli storture e dalla sclerosi permanente della sua elefantiaca struttura burocratica, ma è cosa nota che la forsennata corsa al riarmo durante gli anni della guerra fredda diede un contributo decisivo a logorare lo sviluppo economico dell’Urss e a mantenere basso il tenore di vita dei cittadini sovietici alimentandone così l’indifferenza o la disaffezione. In ogni sistema autoritario, per non parlare di uno stato di polizia, si bada poco a ricercare un ragionevole equilibrio tra l’incremento della potenza militare e i bisogni e le aspirazioni dei cittadini che le vengono regolarmente sacrificati. Ne consegue, alla lunga, un inevitabile indebolimento.

La possente economia capitalistica degli Stati uniti non ebbe invece bisogno di comprimere così pesantemente il livello di vita degli americani nel loro insieme per sostenere i costi della guerra contro l’“impero del male”. Era sufficiente il darwinismo sociale e la rigorosa limitazione del welfare a favore del processo di accumulazione a garantire quell’equilibrio a spese delle fasce più disagiate della popolazione statunitense. In questa partita sono i più forti a vincere senza nemmeno eccessivi timori di indebitarsi. L’egemonia militare costa, certo, ma poi serve anche a tenere a bada i creditori.

Di ogni corsa al riarmo si può dire, anche riferendosi all’ambito delle democrazie parlamentari occidentali, che essa tende ad allargare il divario tra economie forti ed economie deboli esposte, queste ultime, a fattori di instabilità, alla crescita ulteriore delle diseguaglianze interne e quindi alla tentazione di superare squilibri e contraddizioni attraverso una restrizione della democrazia. Compensazioni di carattere ideologico e patriottico ai sacrifici non sembrano oggi abbondare, nonostante una narrazione che agita sempre più istericamente lo spauracchio di una guerra, possibilmente convenzionale ma non si sa mai, nell’intero Vecchio continente.

Il riarmo è un pozzo senza fondo, un piatto in continuo rilancio. Ci si guarda bene dall’andare a vedere perché farlo significherebbe dar fuoco alle polveri. Così i meno solidi precipitano verso il fallimento. La Bundeswehr ha già fatto sapere che i 100 straordinari miliardi di euro stanziati dal governo di Berlino per rafforzare l’esercito tedesco sono di fatto già tutti impegnati. Ne servono altri, molti di più se si vuole avere, come insiste il ministro della difesa Boris Pistorius, un potente esercito adeguato al combattimento. Una volta il termine lessicalmente appropriato a una siffatta forza armata era quello assunto nel 1935 di Wehrmacht.

Se da ogni parte si enfatizza l’urgenza di riarmare massicciamente i paesi europei, le resistenze a mettere in comune i costi di questa corsa alle armi restano decisamente tenaci, inversamente proporzionali ai toni angosciati dell’allarme. Con tutta evidenza l’incremento massiccio della spesa militare fa a pugni con l’impianto rigorista dell’architettura dell’Unione, a meno di sottoporre i cittadini europei, e soprattutto quelli del sud indebitato, a un feroce regime di austerità, che consenta di pagare le armi senza rinunciare alla difesa della rendita finanziaria.

Non è un caso che Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione in cerca del bis, abbia inaugurato ad Atene la sua campagna elettorale tutta incentrata su un’Europa che deve prepararsi alla guerra, lodando e indicando come esempio il paese, già dissanguato dalla Troika e poi tornato nelle mani della destra, per il suo attuale zelo nell’incremento della spesa militare. Un esempio che più agghiacciante non potrebbe essere.

Fatte le debite proporzioni, per alcuni paesi europei (anche se tutti avranno qualcosa da perdere) la corsa al riarmo avrà sulle economie e sui livelli di benessere effetti pesantemente depressivi analoghi a quelli che contribuirono al declino dell’Urss. Ed è nei confronti degli Usa, soprattutto, che l’Europa non ne uscirà emancipata e più unita, ma ancora una volta indebolita e subalterna.

Vi è un modo di contrastare questa deriva? Di contrastare non solo l’eventualità effettiva di una guerra, ma anche il ridisegnarsi e rattrappirsi dell’Europa intorno a questa eventualità, intorno alla prepotente tirannia di una minacciosa proiezione? C’è un argomento morale, certamente. Ma c’è anche il rifiuto di spostare le risorse “dal burro ai cannoni”, di ridimensionare il welfare, e c’è la volontà di difendere il benessere conseguito, i redditi, le prestazioni sociali, le libertà individuali.

E se fosse, allora, una potente ondata di lotte sindacali a sottrarre all’economia di guerra le sue basi materiali oltre ai suoi orpelli ideologici? A favore del più nobile di tutti gli egoismi: quello della buona vita per tutti e per ognuno. Il più immediato e comprensibile antidoto contro la guerra.