Telefonate ai giudici in privato, poco velate intimidazione in pubblico, palesi pressioni dai paesi occidentali: la Corte penale internazionale sa quanto irrimediabile sarebbe una perdita pubblica di legittimità. A dar voce allo sdegno per come il tribunale è stato ridotto, mero compendio di interessi di parte, è stata ieri la procura generale, che dal 2021 indaga sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi nei Territori palestinesi occupati.

«L’indipendenza e l’imparzialità (dell’Icc) – si legge nel comunicato – è minata quando individui minacciano di rappresaglia la Corte o il suo personale». Non nomina mai Israele né gli Stati uniti che da giorni provano a impedire l’emissione di un mandato di cattura per crimini di guerra del primo ministro israeliano Netanyahu.

Ma il riferimento è sotto gli occhi di tutti: «L’ufficio insiste: ogni tentativo di impedire, delegittimare o influenzare in modo improprio devono cessare subito». Sono, aggiunge, «una violazione dello Statuto di Roma».

LA REPRIMENDA giunge mentre al Cairo il negoziato prosegue, senza reali orizzonti. Secondo il Wall Street Journal, Israele avrebbe fatto sapere ad Hamas che o accetta l’accordo entro una settimana o partirà l’offensiva terrestre contro Rafah. Una delegazione del movimento islamico sarà al Cairo domani, ma al momento non pare aver reagito all’ultimatum.

All’Afp uno dei funzionari di più alto grado del gruppo, Husam Badran, ha detto che Hamas sta conducendo un dibattito interno in merito e poi ha puntato il dito contro Netanyahu: «È stato lui a ostacolare tutti i precedenti round di negoziati, ed è chiaro che lo fa ancora». Perché, spiega, i ripetuti annunci di attaccare Rafah «bloccano ogni possibilità di accordo». Infine insiste sul punto che per Hamas è dirimente: cessate il fuoco permanente e non temporaneo e ritiro dell’esercito israeliano da Gaza.

Tel Aviv non la vede allo stesso modo, non intende ritirarsi e pensa già al futuro: secondo il New York Times, il governo israeliano starebbe premendo per «un piano post-guerra per Gaza in cui Israele offrirebbe di condividere la supervisione del territorio con un’alleanza di paesi arabi, compresi Egitto, Arabia saudita ed Emirati, e con gli Stati uniti».

In cambio, aggiunge il Nyt, della normalizzazione dei rapporti con Riyadh. Ancora una volta, palestinesi fuori dal quadro e dal proprio futuro di autodeterminazione: «Dopo un periodo di sette-dieci anni – continua il quotidiano – l’alleanza permetterebbe ai gazawi di votare se essere assorbiti dentro un’amministrazione palestinese che governerebbe sia a Gaza che in Cisgiordania».

In attesa di un dopoguerra che è una chimera, Rafah rimane la minaccia già agita. Ieri l’Onu ha ribadito che un’eventuale offensiva israeliana via terra si tradurrebbe in un «bagno di sangue di civili e in un incredibile colpo all’operazione umanitaria nell’intera striscia». Perché è dalla città-rifugio degli sfollati che le Nazioni unite e le ong gestiscono la distribuzione degli aiuti e cliniche mobili.

Il piano israeliano di evacuazione, ha aggiunto l’Organizzazione mondiale della sanità, è «un cerotto»: «Non preverrà in alcun modo – ha detto Rik Peeperkorn, responsabile Oms per i Territori palestinesi occupati – l’attesa sostanziale mortalità dovuta a un’operazione militare».

MENTRE L’ONU parlava, a Rafah si moriva. Nei raid notturni sono stati ammazzati quattro bambini. E si moriva nel campo di Nuseirat, ridotto a un cumulo di macerie: «Sette persone – una donna e i suoi figli – sono stati uccisi oggi. Abbiamo visto i corpi all’ospedale. I cadaveri dei bambini sono arrivati nei sacchi di plastica, a pezzi», riporta il corrispondente di al-Jazeera Hani Mahmoud. Dal 7 ottobre sono 34.622 i palestinesi uccisi a Gaza, due terzi sono donne e bambini.