Da che le guerre dilagano, e sono più di due anni, né sembra deflettere nei belligeranti e nei loro sostenitori di ogni parte la determinazione a proseguirle, tento di dare un corso ordinato ai miei ragionamenti quando rifletto sulla drammatica situazione in atto convinto che su ogni fronte debbano deporsi le armi.

Un corso ordinato che metta capo non solo a circostanziate valutazioni sulle ragioni e i torti di questo o di quel contendente, ma capace di formulare indicazioni sul piano operativo, cioè a dire efficaci, ovvero tali da poter incidere sul piano dei fatti e obbligare i belligeranti ha cessare il fuoco.

E il discorso cade allora su quale possa essere il soggetto in grado di imporre una tale decisione e, se non lo si identifica, come, e questo è il punto, costruirlo quel soggetto, come suscitare dal basso e con chi coordinare il movimento più ampio che sia possibile schierare contro la guerra. Come rendere operanti questi convincimenti? Questo è il grande, l’enorme problema attuale, stanti le modalità che alimentano e determinano le forme della politica organizzata oggi.

Mi è capitato negli ultimi due mesi di intervenire pubblicamente sulla questione della guerra. Ho scelto di fissare la mia meditazione sui morti, e considerare che quando si parla dei morti in guerra (quelli che l’ipocrita eufemismo definisce «caduti») si parla di uccisi: non «caduti», ma uomini morti ammazzati.

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Sconsolatamente, un filosofo ha scritto che la prima parola che dovrebbe aprire l’animo dell’uomo occidentale è un comandamento dei dieci mosaici che recita «non uccidere». Noi, i bianchi occidentali, ne sappiamo assai in tema di uccidere e di guerra! Ci dissero che elaborammo un tempo, noi europei, un codice di comportamento militare in cui il gioco della guerra fu formalizzato in termini che vollero esser definiti cavallereschi, quasi i tornei dei «cavallieri antiqui».

Non coinvolgevano, pertanto, le popolazioni civili, a differenza di quanto avviene in questi giorni ogni giorno e da cent’anni in qua. E da cinquecent’anni noi, cristiani bianchi occidentali, sontuosi tornei abbiamo organizzato a beneficio delle popolazioni (civili) di interi continenti, nelle Americhe, in Africa, nel Pacifico.

La «soluzione finale» è una specialità al perfezionamento della quale gli europei si sono dedicati con notevole successo nel corso di cinque secoli. Non è uno sconvolgente episodio esclusivo del Novecento, quando di quella modalità dell’uccidere è stato toccato un vertice orrendo. Nella lunga durata, è stato giustamente detto, matura uno dei tempi della storia, forse il più certo nei suoi svolgimenti quali giungono a un loro compimento implacabili: nulla si perde, un caso si presenta alcune volte tal quale; le conseguenze di un altro, sotto mutate spoglie, riaffiorano con rinnovata energia.

Muovo così argomenti che forse toccano da vicino (e forse no: forse si allontanano?) il mio proposito di concentrare la riflessione sugli uccisi e sull’uccidere che si esalta oggi dal Baltico al Mar Rosso. Chi uccide compie una violenza irreversibile che insieme spegne una vita e fa nascere in chi uccide un legame indissolubile con l’ucciso: rimorsi, fantasmi, terrori, vendette, cieche crudeltà. Essi si aggirano in Ucraina e nell’oriente mediterraneo oggi, tra le migliaia degli uccisi e tra i loro uccisori.

Grandi argomenti che conoscevano bene gli antichi, intesi a illuminare l’oscura umanità degli uomini e che ci hanno rappresentato nella loro mitologia e nella loro poesia. Il nostro tempo sembra poco interessato a quel lascito, si sente capace di poterne fare a meno. Ne fecero particolarmente tesoro, tra Cinque e Seicento, i drammaturghi dell’epoca elisabettiana, in Inghilterra, consegnandoci un patrimonio che si vorrebbe fosse ai nostri giorni coltivato.

Stare col pensiero agli uccisi e all’uccidere consente una angolatura preziosa per quanto concerne un ragionare sulla guerra. Come poi una crescita di consapevolezza e di umanità che ne possiamo acquisire si declinino in termini politici, in termini di presa di posizione politica questa è la estrema difficoltà da affrontare.