Il progetto di coalizione sociale promosso dalla Fiom e consolidato dall’imponente manifestazione del 28 marzo offre a tutte le persone di buona volontà un’opportunità che non va lasciata cadere.

La proposta circolava da tempo: era già stata avanzata da Rodotà in un’assemblea dell’Altra Europa lo scorso giugno e raccolta in diversi documenti di questa organizzazione, rimasti però senza seguito, avendo L’Altra Europa imboccato invece la strada di un accordo tra partiti e correnti della sinistra esterna e interna al Pd.

Ora, sotto l’ombrello della Fiom, la coalizione sociale sarà per sua natura una realtà policentrica, la cui trama può cominciare a esser tessuta dai punti più diversi del territorio e della struttura sociale, senza che tra le diverse iniziative si vengano a creare per forza competizioni o sovrapposizioni.

L’obiettivo comune è quello di aggregare formazioni, comitati, associazioni, movimenti, sindacati – ma anche singoli non organizzati – non solo differenti tra loro per storia, composizione sociale, obiettivi e pratiche, ma tra i quali sussistono spesso, latenti o espliciti, fattori di incompatibilità o di conflitto. Ma il lavoro di ricomposizione di queste differenze – che una volta affrontate si rivelano un fattore di ricchezza sia per tutti che per il progetto comune – è proprio ciò che rende anche politica la coalizione sociale. Una formazione composta da movimenti e iniziative che per natura o per la loro storia hanno obiettivi monotematici, o operano in campi limitati, o sono confinati in ambiti locali.

Perché la politica «buona» – quella orientata alla promozione, al rafforzamento e al collegamento di lotte e iniziative contro le strutture consolidate del potere o le misure che colpiscono la maggioranza della popolazione – non è altro che questo: unire ciò che il capitalismo (e in particolare, la sua configurazione globalizzata e finanziarizzata di oggi) divide.

Per questo una coalizione sociale ben praticata è anche sempre «politica».

Ma non è vero il contrario: una aggregazione di organizzazioni politiche oggi tende a rivelarsi fattore di divisione tra le componenti sociali che dovrebbero esserne il riferimento. Perché qui entrano in gioco diverse rivalità: nel migliore dei casi tra visioni (a volte anche solo linguaggi) differenti e ciascuna aspira ad affermare la propria egemonia sulle altre; nel caso peggiore, e più frequente, tra esigenze rivali di sopravvivenza delle strutture o di riproduzione della porzione di ceto politico presente in ciascuna organizzazione. Un rischio da cui non sono esenti nemmeno le grandi associazioni, che hanno anch’esse una propria piccola burocrazia interna; ma in misura infinitamente minore, perché la loro missione e le loro radici nella società le inchiodano in qualche modo a comportamenti meno ondivaghi.

E’ quello che a mio avviso non hanno capito i molti – tra cui Paolo Favilli in un articolo sul manifesto del 28 marzo scorso – che giocano sulla reversibilità tra i due concetti: se una coalizione sociale è necessariamente politica, una coalizione politica non può che essere anche sociale. Le cose non stanno così e molte vicende, anche recenti, ce lo hanno dimostrato. Per questo una coalizione sociale, a differenza di un accordo tra partiti, non può che essere «né di destra né di sinistra», nonostante che gran parte dei valori che fa propri siano quelli della sinistra tradizionale (ma anche su questo il femminismo ha certamente molto da dire; e da ridire).

Ovviamente metter d’accordo organizzazioni sociali differenti e tra loro in gran parte estranee è più complicato e richiede più tempo, ma è anche più solido, che stringere un patto tra i vertici di partiti o di correnti diverse. Ma può aiutare, in questo compito, ciò che già era stato prospettato, e mai attuato, all’interno de L’Altra Europa dopo le elezioni europee: la formazione di gruppi di lavoro in cui le diverse componenti della coalizione possono confrontare le loro posizioni su alcuni temi specifici; ma anche le loro pratiche, che sono spesso, assai più delle dichiarazioni programmatiche, ciò che divide. E’ in sedi come queste che si possono individuare i punti di convergenza e promuovere iniziative comuni: non necessariamente tra tutte le componenti della coalizione in fieri, ma solo tra coloro che su quei punti già si trovano d’accordo. Poi si può mettere a confronto le posizioni di coloro tra i quali l’accordo non è stato trovato e verificare, con uno scavo sulle ragioni delle divergenze, ma anche attraverso il confronto con le tante posizioni diverse che vi partecipano, se è possibile arrivare a una mediazione.

Ed è nel corso di questo lavoro che, tra alcune – non necessariamente tutte – componenti della coalizione può emergere e consolidarsi la proposta di una lista elettorale, senza che una scelta del genere impegni tutti.

Per questo il problema dei due tempi posto da Rodotà – prima la coalizione sociale; poi, magari, anche la lista elettorale – non si pone. Le due cose possono marciare separatamente in un unico progetto; a condizione che si tengano a bada, escludendole dalla coalizione, le aspirazioni egemoniche dei partiti.

Presto il progetto della coalizione sociale, promosso a livello nazionale, si riproporrà a livello locale: qui le combinazioni, come i punti di partenza e le prime esperienze di un’iniziativa che mira all’unità, ma non parte da essa, potranno essere le più varie; ed è bene che ciascuno cominci a lavorare nei modi e con gli interlocutori che gli sono più consoni. Si tratterà di aggregazioni che, come indica il nome – Unions! – della mobilitazione del 28, si richiamano allo spirito mutualistico e solidale degli albori del movimento operaio. Ma che riprodurranno anche, per il loro legame con territori e comunità, quel community unionism che ha innescato la ripresa del movimento sindacale negli Stati Uniti, soprattutto tra i lavoratori immigrati e meno qualificati; e che non si ferma – anche se ovviamente non la trascura – alla contrattazione salariale e delle condizioni di lavoro, ma si fa carico di tutta la condizione sociale, e anche esistenziale, dei suoi adepti.

Per questo la coalizione sociale è anche un ritorno alle origini: rinnovato per misurarsi con la complessità degli assetti sociali odierni. Alle origini, le istituzioni del movimento operaio avevano una base sociale anche nel territorio: la fabbrica non distava dalle abitazioni degli addetti e i quartieri operai erano contigui alle unità produttive.

Le prime lotte operaie traevano gran parte della loro forza dal loro retroterra. La disgregazione di quel tessuto sociale ad opera di un’urbanistica che aveva come obiettivo la separazione tra lavoro e residenza – e dispersione di questa in un pulviscolo abitato da lavoratori di fabbriche e uffici tra loro lontani – ha cambiato i connotati della condizione operaia: ben prima che la frammentazione dell’impresa fordista in una molteplicità di unità produttive separate, sottoposte a differenti regimi contrattuali in paesi e continenti diversi cominciasse ad aggredire l’unità della classe operaia anche sui luoghi di lavoro.

Il sindacalismo «operaista» che ha avuto la sua epopea in Italia e in Europa negli anni ’60 e ’70 e negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40 – ma il cui modello permane, pur in un contesto completamente cambiato – non è che il residuo di questo «intermezzo» storico: tra la disgregazione dell’unità di classe sul territorio del tardo ottocento e del primo novecento e quella sui luoghi di lavoro della fine del novecento e dell’inizio di questo secolo. Oggi, in un contesto globalizzato, la dimensione territoriale delle alleanze (dove il lavoro di cura, domestico e no, l’altra economia e la conversione ecologica possono trovare il loro spazio più proprio) torna ad avere un ruolo di primo piano. E’da lì che possono ricrearsi processi stabili di confronto e di unità tra diversi.