Teheran realizzerà la sua rappresaglia attaccando dal suo territorio Israele in risposta al sanguinoso raid aereo dello Stato ebraico contro il suo consolato a Damasco – uccisi tra gli altri un alto comandante dei Pasdaran, Mohammad Reza Zahedi – oppure eviterà di fornire a Benyamin Netanyahu il pretesto che cerca da venti anni per attaccare le centrali atomiche iraniane, assieme agli Stati uniti. Era questo l’interrogativo di tutti mentre i media riferivano della imminente nuova escalation in Medio oriente. Ieri sera si è pensato all’inizio della ritorsione iraniana quando le sirene di allarme sono scattate nel nord di Israele. Invece si trattava del lancio di 40 razzi da parte del movimento sciita libanese Hezbollah abbattuti o caduti in aree aperte.

Il Wall Street Journal scriveva ieri che la risposta iraniana all’attacco aereo israeliano su Damasco scatterà «in 24-48 ore». La Cbs citando «due fonti Usa» ha aggiunto che potrebbe includere più di 100 droni e decine di missili indirizzati su obiettivi militari. Altre fonti dicono che Teheran ha fatto sapere agli americani che risponderà in modo da non innescare una guerra totale. Soluzione che lascia pensare a un attacco non dal suo territorio bensì da più punti della regione, portato da gruppi armati suoi alleati. La Repubblica islamica è convinta che Israele stia facendo di tutto per trascinarla in una guerra e di questo ha discusso con alcuni paesi del Golfo, inclusa l’Arabia saudita, che avrebbero esortato Teheran alla cautela. Invece secondo Axios l’Iran non teme affatto un conflitto aperto e cerca di evitare soltanto l’ingresso in campo degli Stati uniti. Per questo, prosegue, avrebbe ammonito gli Usa a non lasciarsi coinvolgere, altrimenti le forze statunitensi nella regione verranno attaccate.

In questa incertezza, gli unici dati certi sono che il Comando del fronte interno israeliano non ha comunicato ai civili di prepararsi ad attacchi missilistici e tenersi pronti ad andare nei rifugi, come fa sempre in queste circostanze, e che la tensione tra Tel Aviv e Teheran ha immediatamente rinsaldato i rapporti tra l’Amministrazione Biden e Benyamin Netanyahu. In un attimo sono svanite le tensioni, vere e presunte, generate dalle restrizioni israeliane all’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza, dalla recente uccisione di sette membri della Ong World central kitchen e dall’intenzione israeliana di attaccare anche la città di Rafah dove si ammassano oltre un milione di sfollati palestinesi. «La minaccia dall’Iran contro Israele è ancora presente, reale e credibile. Gli Stati uniti faranno di tutto per aiutare gli israeliani a difendersi», ha detto ieri il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, John Kirby, ribadendo quanto Washington aveva affermato nei giorni scorsi per bocca del Segretario di stato Blinken. L’Amministrazione Usa è pronta a scendere in guerra accanto a Israele. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ieri ha incontrato il comandante del Centcom statunitense, Michael Kurilla, che ha ringraziato per il sostegno a Israele. «I nostri nemici pensano di poter dividere Israele e Stati uniti, ma è vero il contrario, ci stanno unendo e rafforzando i nostri legami. Siamo fianco a fianco. Siamo pronti a difenderci in stretta collaborazione con i nostri partner», ha detto Gallant. Poco dopo si è appreso che gli Usa invieranno rinforzi di uomini e mezzi in Medio oriente.

Vari paesi ora sconsigliano ai propri cittadini di andare in Israele e Iran ,a lo scenario più probabile resta sempre una resa dei conti tra Hezbollah e Israele, forse nelle prossime settimane. Se gli sfollati dal Libano del sud martellato dai bombardamenti israeliani aumentano giorno dopo giorno e Hezbollah farebbe fatica a sostenerli con donazioni e fondi, sull’altro versante del confine, in alta Galilea, gli 80mila israeliani che hanno dovuto lasciare le loro case, con l’appoggio di ministri e deputati, premono affinché il gabinetto di guerra «risolva una volta e per tutte» il «problema Libano», ossia con una ampia operazione militare simile a quella che ha distrutto Gaza. Nel nord di Israele la popolazione si prepara alla guerra: alcuni fanno scorta di alimenti e di acqua, altri comprano piccoli generatori autonomi di elettricità. Altri pensano di andare a sud, come avvenne nel 2006 durante la prima guerra aperta tra Israele ed Hezbollah. Il governo Netanyahu da parte sua ha varato il piano «Scudo del Nord» per la protezione e riabilitazione dei centri abitati lungo il confine, ora in gran parte abbandonati.

Mai come in questi ultimi giorni e in queste ore, Gaza è stata messa in secondo piano dai media. Eppure, l’offensiva israeliana non è terminata e non è meno letale di prima, ha semplicemente una nuova faccia. Ieri nuovi morti e feriti. Israele dice di aver ucciso altri due esponenti di Hamas ma i palestinesi riportano anche vittime civili. Il discorso internazionale resta ancorato sugli aiuti umanitari alla popolazione e secondo gli Usa ora Israele sta facendo «quello che si era impegnato a fare» in riferimento all’apertura di un nuovo valico al nord, nei pressi di Zikim, per l’ingresso dei generi di prima necessità a Gaza. Però ieri a nessuna delle missioni umanitarie pianificate dalle Nazioni unite Israele ha permesso di entrare nel nord di Gaza, secondo la denuncia dell’ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari. La tv turca Trt, denuncia che forze israeliane hanno aperto il fuoco contro le Torri Salhi a Nuseirat ferendo alcuni dei suoi giornalisti, uno dei quali, Sami Shahada, ha avuto una gamba amputata.