«Ho chiesto ostinatamente di poter intervenire in Assemblea capitolina, mi è stato vietato. Chiedo ancora perché». Quando alle 18:30 Ignazio Marino si presenta davanti ai media di mezzo mondo riuniti per ascoltare le parole che non ha potuto pronunciare in Consiglio comunale, non è più sindaco di Roma da 20 minuti.

Al piano superiore di Palazzo Senatorio, dopo ore di attesa, è finalmente arrivato il ventiseiesimo consigliere che ha firmato la fine della giunta Marino permettendo così al partito renziano di bypassare l’Aula Giulio Cesare. Per avere la testa del marziano ne occorrevanno 25, di firme da protocollare, ma quella in surplus è la più importante, sugella il patto del Tritone: è di Alfio Marchini, l’uomo che permetterà al Pd di evitare il tonfo elettorale della prossima primavera e a Matteo Renzi di far nascere davvero il partito della nazione.

Marino ha deciso di affrontare da solo (in sala neppure la fedelissima Alessandra Cattoi), emozionato e teso, l’incontro con la stampa: «Auspicavo che la crisi politica che si era aperta potesse chiudersi in Aula con un dibattito chiaro e trasparente. Si è preferito andare dal notaio: segno di una politica che discute e decide fuori dalle sedi istituzionali, riducendo gli eletti a meri soggetti che ratificano decisioni prese altrove. Prendo atto che i consiglieri hanno preferito sottomettersi e dimettersi pur di evitare il confronto pubblico».

Recita il discorso che «avrei voluto tenere davanti all’Assemblea». Ringrazia cittadini, assessori e consiglieri, elenca tutti i traguardi conseguiti dalla giunta che fu di centrosinistra fino a luglio e da quel partito che «ha condiviso tutte le scelte che ora improvvisamente non vanno più bene»: assestamento del debito lasciato dalla precedente amministrazione di Alemanno, smantellamento di Parentopoli, chiusura della discarica di Malagrotta, «che forse qualcuno oggi vuole riaprire», una «nuova visione strategica della mobilità», «un nuovo assetto societario e industriale dell’Atac», il blocco al consumo del suolo, la «rigenerazione urbanistica diffusa sul territorio», la fine dello «scandalo dei residence».

Continua a elencare, Marino, fino a: «Abbiamo anche allargato – e io ne sono orgoglioso – i diritti per tutte e per tutti». È un punto importante e lui lo sottolinea, perché a nessuno sfugge la puntualità vaticana palesatasi anche ieri. E riceve l’applauso dei consiglieri di Sel e della sua lista civica, arrivati ad ascoltarlo.

L’ex sindaco spiega che era sua intenzione portare in Assemblea la notizia dell’avviso di garanzia ricevuto nell’ambito dell’inchiesta sugli “scontrini”: «Un atto dovuto da parte della procura, alla quale io credo di aver spiegato bene le mie ragioni e la mia trasparenza». Ma riunire il Consiglio era fuori dell’orizzonte renzian-orfiniano: «Quando ho ritirato le dimissioni, ne ho fatto richiesta alla presidente d’Aula, Valeria Baglio», ma si era prospettata solo «la possibilità di comunicazioni in Aula, mentre io averi voluto un vero dibattito». «Avrei accettato la sfiducia a viso aperto e avrei stretto la mano a ciascun consigliere, ma avrei anche chiesto loro di continuare a servire le istituzioni e non a servirsi delle istituzioni».

Marino riconosce di aver commesso errori, «ma l’unico chirurgo che non sbaglia è quello che non entra mai in camera operatoria», dice. E poi, l’”impolitico” attacca a testa bassa i principini della politica: «Questo partito mi ha deluso per il comportamento dei suoi dirigenti perché ha rinunciato alla democrazia tradendo ciò che ha nel suo dna. Come può un partito che si definisce democratico ridursi ad andare dal notaio? Questo vuol dire concepire la politica come qualcosa che si vende o si compra».

Era stato un notaio, infatti, convocato ieri pomeriggio nella sede dei gruppi consiliari di Via del Tritone, a preparare il testo delle dimissioni di gruppo e i documenti necessari per far firmare i 19 consiglieri dem e i sei “barellieri” pronti a sacrificare il loro mandato sull’altare dell’accordo politico stretto con Alfio Marchini, tra Palazzo Chigi e il Nazareno. A soccorrere il Pd sono arrivati due eletti nelle liste di maggioranza – Svetlana Celli della Lista civica Marino e Daniele Parrucci di Centro democratico – e quattro consiglieri di opposizione: Roberto Cantiani del Pdl, Alessandro Onorato della Lista Marchini, Ignazio Cozzoli e Francesca Barbato dei Conservatori riformisti. Oltre al “papa straniero” ma romanissimo, l’imprenditore senza partito che mette d’accordo il centrodestra alfaniano e il Pd renziano. Non un mero conteggio algebrico, ma una vera operazione politica che rinsalda il patto di maggioranza che sostiene il governo Renzi. Un motivo in più per non perdere tempo davanti agli eletti dal popolo.

Un pagina nera che ferisce l’uomo, figlio – volente o nolente – di quel Pd che ora lo ha tradito. «Quando ad accoltellarti è un familiare ti chiedi se è un gesto inconsulto o premeditato. Me lo sto chiedendo», dice. Rapporti turbolenti con Renzi? «Assolutamente no, anche perché – risponde sorridendo – nell’ultimo anno con il segretario non ha avuto alcun rapporto». Poi il sorriso si spegne: «Chi mi ha accoltellato ha 26 nomi e cognomi, e mi pare un unico mandante».