Mentre il governo conservatore del premier Mariano Rajoy frena sull’accoglienza dei profughi, i municipi di sinistra mostrano l’altro volto della Spagna. Quello solidale. E le differenze fra opposti schieramenti politici, come dovrebbe essere sempre, emergono molto chiaramente.

A guidare le città che dicono «refugiados bienvenidos» è Barcellona, la cui sindaca Ada Colau (nella foto reuters) è stata la prima a prendere l’iniziativa. La giunta guidata dall’ex attivista dei movimenti anti-sfratti ha deciso di creare un «registro dell’accoglienza»: tutte le famiglie che intendono dare un aiuto concreto ai migranti – ospitandoli a casa propria o semplicemente donando denaro o generi di prima necessità – saranno censite e inserite in tale speciale «lista della solidarietà».

In questo modo il comune potrà sapere su quante risorse in tutto contare, al di là delle proprie: un buon esempio di come la partecipazione dei cittadini può incontrare virtuosamente l’amministrazione. «Non si tratta di carità, l’asilo è un diritto umano», ha chiarito il vicesindaco Gerardo Pisarello, che non a caso è un apprezzato costituzionalista molto sensibile al tema dei diritti.

Sulla scia della capitale catalana, moltissime altre città del Paese si stanno muovendo per alleviare le sofferenze dei richiedenti asilo. Nella Madrid della sindaca Manuela Carmena si dedicheranno risorse economiche straordinarie all’accoglienza, e così faranno tutte amministrazioni comunali guidate dalle forze progressiste: quelle ascrivibili all’area di Podemos (come le stesse Barcellona e Madrid, ma anche Saragozza e Cadice), quelle governate dai socialisti del Psoe (come le andaluse Cordoba e Huelva), e quelle di altre movimenti come gli indipendentisti baschi di Eh Bildu (Pamplona, capoluogo della Navarra). Tutte insieme formeranno una «rete delle città accoglienti», che funzionerà da forma di coordinamento e confronto permanente sull’emergenza-profughi. A Valencia è mobilitato anche il governo regionale, retto da una maggioranza di «sinistra plurale» formata da Psoe, Compromís (autonomisti progressisti) e Podemos, che ha messo a disposizione i propri mediatori culturali, ma soprattutto che ha chiesto alle banche proprietarie di appartamenti vuoti di metterli a disposizione dei migranti.

Pienamente in linea con il loro leader Rajoy, i popolari di Barcellona hanno criticato le intenzioni della giunta di Colau: «La nostra città non può risolvere da sola i problemi del mondo», ha affermato il capogruppo in consiglio comunale Alberto Fernández Díaz, fratello del più noto e anziano ministro degli interni Jorge, l’artefice della famigerata legge anti-proteste che gli spagnoli chiamano ley mordaza (noi diremmo «legge bavaglio»).

Due uomini di ampie vedute. E non brillano per empatia e solidarietà nemmeno i centristi (che guardano a destra) di Ciudadanos, nati proprio in Catalogna come partito «spagnolista» anti-indipendenza: quella della giunta barcellonese è, secondo loro, una fuga in avanti «individualista».

Ben più apprezzato, evidentemente, è l’immobilismo dell’esecutivo. Il ruolo del governo spagnolo nella vicenda che sta sconvolgendo l’intera Europa è particolarmente negativo: frena sul meccanismo di ripartizione dei richiedenti asilo, che con molte difficoltà sta approntando l’Unione europea, e si rifiuta di accettare il numero di persone che le autorità di Bruxelles vorrebbero assegnare alla Spagna (esattamente 5849, in un Paese di 46 milioni di abitanti).

«Al massimo ne prendiamo 2739», dicono dal palazzo della Moncloa. Motivo per il quale un gruppo di personalità pubbliche – fra i quali l’ex direttore di El País Joaquín Estefanía o l’ex presidente del Consiglio di Stato Francisco Rubio Llorente – hanno sottoscritto un appello che chiede a Rajoy non solo di accogliere tanti richiedenti asilo quanti indica la Ue, ma di aumentare tale cifra «in proporzione alla dimensione della catastrofe umanitaria che si sta sviluppando nel Mediterraneo».