L’informazione che riceviamo dai nostri amici attraverso i social network e le mail è molto più omologata di quella che ricaviamo dai motori di ricerca. Questo è il risultato di uno studio realizzato dal gruppo di ricerca dell’Università dell’Indiana composto da Dimitar Nicolov e Diego Oliveira e diretto dagli italiani Filippo Menczer e Alessandro Flammini.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista open access (dunque liberamente accessibile a tutti) PeerJ, e contraddice l’opinione diffusa secondo cui sarebbe Google il vero «grande fratello», mentre i social network permetterebbero anche alle informazioni più scomode di bucare la censura e scatenare le «Twitterevolution».

I ricercatori hanno analizzato i siti visitati dagli utenti cliccando sui link arrivati via social network, email o motore di ricerca, usando i dati dei server della loro stessa università. Hanno così scoperto che le fonti delle news a cui gli utenti accedono tramite social network e email sono molto meno diversificate rispetto a quelle raggiunte con i motori di ricerca. Per misurare la diversificazione i ricercatori hanno utilizzato una grandezza termodinamica, l’entropia, che, nel caso di un gas, misura il grado di disordine dello stato del sistema.

Lo studio è la prima conferma quantitativa dell’esistenza delle «bolle informative». Secondo questa ipotesi, siamo sempre più esposti a informazioni filtrate, che preferibilmente assomigliano alle nostre stesse opinioni e tendono a confermarle. Le «bolle» sono all’origine della scarsa qualità delle discussioni online di cui tutti, a vario grado, facciamo le spese: sui social network spesso ci si dà ragione a vicenda e, per reazione, ogni disaccordo genera litigate furibonde combattute da dietro uno schermo.

Ma una conseguenza di questa perdita di info-diversità è anche la riduzione di prospettiva, per colpa della quale intere porzioni di realtà scompaiono al nostro sguardo. E siccome sia i social network che i motori di ricerca sono basati sulla vendita di pubblicità, in fin dei conti a scegliere cosa mostrare o nascondere del mondo sono principalmente gli inserzionisti.
Questi meccanismi sono rafforzati sui social network, dove ovviamente gli utenti stringono «amicizie» sulla base di affinità personali. In più, gli stessi social network aggiornano regolarmente i loro algoritmi in modo da mostrare agli utenti il tipo di informazione più conveniente per il network stesso. Basta cambiare qualche variabile nell’algoritmo, per spostare da una parte all’altra della rete centinaia di milioni di internauti.

Chi ne sta facendo maggiormente le spese, oltre agli utenti stessi, sono i siti di informazione. Secondo un’analisi del sito Digiday, dedicato alle ultime tendenze nel campo dell’editoria e della pubblicità online, nel corso del 2015 il traffico diretto da Facebook verso i trenta principali siti di informazione è calato del 32%. Per i primi dieci, il calo arriva al 40%.

Molti osservatori spiegano queste cifre con l’intenzione di Facebook di confinare la navigazione degli utenti all’interno dello stesso social network e di convincere le altre testate a pubblicare i propri articoli direttamente su Facebook, ovviamente a pagamento.

Le strategie di marketing sono determinanti anche nei motori di ricerca, Google in testa. Il quale tuttavia, si limita a dirigere il traffico verso siti esterni e non dispone di un ecosistema vasto e coinvolgente come Facebook. Ad azionare un motore di ricerca è pur sempre una domanda dell’utente spinto dalla curiosità verso qualcosa che non conosce ancora. Ma in pochi avremmo previsto che l’ultimo baluardo del pluralismo sarebbe stato proprio Google.

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