Tra le conseguenze a lungo termine della pandemia, l’aumento del debito pubblico è sicuramente una delle più rilevanti. Come ricordato su questo giornale, ai 132 miliardi di debiti sinora contratti con diversi interventi di «scostamento» se ne dovranno a breve aggiungere altri, e altri ancora saranno necessari nei mesi a venire. Se, come pare, è realistico ipotizzare un fabbisogno di 20 miliardi al mese (ma già in aprile saranno il doppio), a fine 2021 il totale dell’indebitamento causato dal Covid-19 avrà superato i 300 miliardi di euro. Cifre astronomiche, che porteranno l’esposizione finanziaria complessiva del nostro Paese a un passo dalla soglia dei 3.000 miliardi.

Come ripagheremo questo debito – in realtà, i suoi interessi – non è il solo, e forse nemmeno il più rilevante, problema che ci si parerà innanzi quando (quando?) l’emergenza sanitaria in atto sarà finalmente superata. Altrettanto, se non più preoccupante, è l’effetto che ne deriverà per la capacità dello Stato di far fronte alle spese destinate all’attuazione dei diritti costituzionali, a partire, ovviamente, dai diritti sociali. Già oggi, dopo trent’anni di tagli e austerità, scontiamo – nella sanità, nella scuola, nell’assistenza, nella casa, nel lavoro, nei trasporti, nella cultura, ecc. – gli effetti devastanti prodotti dal sottofinanziamento dei diritti. Spaventa immaginare cosa potrà accadere con il condizionamento di un vincolo debitorio ancora superiore.

Nel dramma, una cosa positiva la pandemia sembra, tuttavia, averla prodotta: il recupero – invero, più presso l’opinione pubblica che presso la classe politica – della consapevolezza dell’importanza dei pubblici servizi e del loro adeguato finanziamento. Difficile immaginare, oggi, qualcuno in grado di raccogliere consenso intorno a frasette (non solo) etimologicamente idiote come «la società non esiste», «lo Stato è il problema», «affamiamo la bestia». Ricostruire lo Stato, dotandolo delle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie, sembra oggi politicamente possibile. E anche la domanda solitamente opposta ai fautori di questa prospettiva – «sì ma dove li prendiamo i soldi?» – sembra oggi trovare facile (e ovvia) risposta: presso i più ricchi, là dove le risorse sono state scandalosamente concentrate in questi decenni, come oramai denuncia persino il Fondo monetario internazionale.

Per quanto più timida di quel che sarebbe necessario, la politica fiscale del duo Biden-Yellen, incentrata sulla proposta di aumentare le tasse sulle imprese e sui redditi privati più elevati, potrebbe segnare un cambio di rotta epocale. Soprattutto, l’idea di negoziare a livello internazionale un’imposta minima sui profitti delle multinazionali dimostra – come sostenuto da Emmanuel Saez e Gabriel Zucman (Il trionfo dell’ingiustizia, Einaudi 2020, cap. VI) – che la questione è essenzialmente politica, non economica: chi, in tutti questi anni, ha ripetuto alla nausea «non lo possiamo fare», stava in realtà dicendo «non lo vogliamo fare».

L’opinione pubblica sembra pronta, se è vero che sondaggi recenti – si veda quello promosso da Tax justice Italia e Millionaires for humanity – registrano un amplissimo favore, persino tra gli elettori di destra, per interventi fiscali ispirati a progressività e volti a finanziare politiche di solidarietà. E, in effetti, la stragrande maggioranza dei contribuenti non avrebbe che da guadagnare da una redistribuzione del carico fiscale volto a diminuire le imposte per le classi basse e medie e ad aumentarle per la classe alta. Non c’è menzogna più grande che quella per cui le tasse sono troppo elevate: lo sono per molti, non certo per tutti.

A non essere pronta è la politica italiana, com’è dimostrato dal peso che, su questi temi, continua ad avere l’Istituto Bruno Leoni, pasdaran della flat tax sotto la presidenza di un ex parlamentare del Pds e ancora capace, nonostante i tempi, di trovare ascolto tra i consulenti economici di Mario Draghi (oltre che nel comitato scientifico della scuola di politica di Enrico Letta: come se Forza Italia avesse annoverato tra i docenti della propria scuola di formazione un fautore della collettivizzazione dei mezzi di produzione). C’è dunque davvero da stupirsi se, tra una destra rimasta ancorata alla servile convinzione che ciò che va bene ai ricchi va bene a tutti e un Pd che non ha esitato un istante a soffocare sul nascere gli aneliti di giustizia fiscale sorti al proprio interno, il primo intervento di Draghi in materia tributaria sia andato a favore degli evasori fiscali?