Era il 31 luglio 2009 quando Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare, venne prelevato da carabinieri, guardia costiera e personale medico da una spiaggia del Cilento. «È una caccia all’uomo», dicono agli astanti per farli allontanare, come racconta una testimone. Su di lui pende un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) firmato dal sindaco Angelo Vassallo per essere stato visto guidare la sera prima in un’area pedonale con lo sguardo perso nel vuoto. Condotto nel reparto di psichiatra dell’ospedale di Vallo della Lucania, Mastrogiovanni muore cinque giorni dopo: 87 ore – come recita il titolo del documentario di Costanza Quatriglio presentato in anteprima al Festival Arcipelago a Roma e che verrà trasmesso in seconda serata su Rai3 il 28 dicembre.

Cinque giornate legato a un letto senza poter mangiare e senza che nessuno degli infermieri o dei medici mostrasse di accorgersi o darsi pena della sua sofferenza. Nessuno sembra vedere ciò che accade sotto gli occhi di tutti quelli che entrano nella sua stanza, ad eccezione delle telecamere di sicurezza, che con il loro «occhio disumano» – come lo chiama la regista – registrano ogni istante del lungo martirio dell’uomo, dalla lotta per liberarsi agli ultimi istanti di vita. Immagini che vanno a costituire la prova regina del processo a carico di medici e infermieri alternatisi in quelle 87 ore nel reparto di psichiatria, questi ultimi tutti assolti con la motivazione che «agivano ritenendo di obbedire a un ordine legittimo» – giustificazione memore di altri raccapriccianti processi in cui ci si discolpava proprio attraverso la retorica degli ordini ricevuti e della frammentazione dei compiti. «Un infermiere che ha chiesto di restare anonimo mi ha raccontato che in quei giorni non capiva ciò che stava succedendo, che in quel momento vedeva solo il suo ’pezzettino’ – racconta Costanza Quatriglio – e solo dopo ha realizzato l’entità della vicenda».

È la registrazione «gelida» della via crucis di Mastrogiovanni il materiale con cui la regista realizza il suo documentario: «la sfida era far diventare il documento materia prima per una narrazione, cercare di trovare delle chiavi di lettura», dice. Ed è proprio l’inumanità del mezzo a fornire questa chiave: «l’occhio meccanico era stato messo lì per sorvegliare i pazienti, in modo che gli infermieri non dovessero neanche entrare nelle loro stanze. Ciò che accade dentro il reparto appartiene al mondo dell’insensatezza, regolato però da delle sue leggi interne», e in primo luogo proprio questa forma di osservazione. La straziante visione dell’agonia di Francesco Mastrogiovanni è guidata e interrotta brevemente dalla testimonianza della nipote Grazia Serra, tra le fondatrici del Comitato verità e giustizia per Franco Mastrogiovanni, che racconta di come un suo tentativo di fare visita allo zio sia stato impedito da uno dei medici condannati in primo grado e ora in attesa del processo d’appello: le ha detto che il maestro «riposava tranquillamente» e che la vista di parenti e amici avrebbe potuto agitarlo.

Un medico a cui è stato consentito, come racconta Luigi Manconi, membro della Commissione per i Diritti Umani del Senato, di continuare, per una tipica «patologia italiana», ad esercitare la professione e quest’estate ha seguito il TSO di un giovane morto in maniera analoga a Mastrogiovanni in provincia di Salerno. Quando gli infermieri si accorgono che il maestro elementare non respira più tentano invano di rianimarlo, e la voce fuoricampo dell’anatomo-patologo che ha eseguito l’autopsia ci rivela, come osserva la regista, «proprio ciò che quel freddo occhio non poteva dirci: cosa ha ucciso Mastrogiovanni». Sui polsi e le caviglie delle profonde lacerazioni testimoniavano la sua lotta per liberarsi, e i polmoni recavano il segno dell’edema polmonare che lo ha ucciso in una lenta agonia i cui sintomi sono facilmente riconoscibili.

«Quando sono stata a trovare mio zio non sapevo che fosse mio diritto vederlo, e non sapevo che lui aveva il diritto di chiedere un avvocato», dice Grazia Serra. «Per questo nonostante lui fosse una persona estremamente riservata abbiamo deciso di rendere pubbliche le immagini di ciò che gli è accaduto, perché in un momento simile degli altri familiari non si trovino ad essere così inconsapevoli dei propri diritti».