Esempio tra i più riusciti della implicazione reciproca di filosofia e psicoanalisi, il lavoro di Jacques Lacan è stato ricordato da Bruno Moroncini – filosofo e psicoanalista, per molti un  grande «maestro»–  per il suo «uso spregiudicato, ma non per questo meno rigoroso» nel seminario che dedicò alla formazione degli analisti. Rovesciando la consuetudine di considerare applicata la psicoanalisi che invade i territori dell’etnografia, dell’estetica o della morale, distinta dunque da quella che per Freud era stata un’indagine speculativa e metapsicologica, Lacan  concepì il seminario come un luogo di costruzione e trasmissione dei concetti via via in uso. Il suo insegnamento ha fatto dunque rientrare la psicoanalisi in un comune «spazio dei saperi», imponendole il confronto con la tradizione filosofica.

È evidente – nei saggi raccolti da Carmelo Colangelo a un anno dalla scomparsa del filosofo napoletano, Benjamin, Derrida, Lacan Per Bruno Moroncini (Orthotes, pp. 218, € 22, 00) – come egli abbia chiamato in causa il rapporto che la filosofia intrattiene con lo strumentario psicoanalitico, aprendola a una verità «indeducibile e non anticipabile», all’idea radicale della soggettività che è stata formulata da Freud e Lacan, e mettendo alla prova quei confini che separano la teoria dalla clinica. Ma non solo. Come osserva Colangelo, la riflessione di Moroncini muove dalla convinzione che la filosofia sia «tutto ciò che può essere quando è in grado di tenersi in relazione con l’esperienza»: l’uso della terminologia clinica in questi saggi filosofici, allora, non è se non  uno dei modi peculiari in cui all’esperienza è stato consentito di emergere, con il suo potere di lacerazione, nel campo del sapere.

È in seno a questa operazione che Moroncini ha potuto accostare in modo del tutto originale il nome di Walter Benjamin a quello di Aby Warburg, interpretando le immagini dialettiche e le Pathosformeln come «simboli» del desiderio (Wunschsymbole). Oltre al debito diretto del filosofo tedesco nei confronti della tesi contro la «concezione rettilinea della storia», c’è tra la teoria benjaminiana e quella warburghiana un’assonanza sorprendente, che trascende la soggettività autoriale e si inscrive nel registro intermittente della verità, che è per Moroncini ipso facto un registro politico, se è vero che solo nel segno del desiderio soddisfatto si può concepire la Jeztzeit – l’epoca attuale – come una «bomba a mano pronta a deflagrare». In maniera analoga, la questione della voce e della sua separazione dal logos viene estratta dal confronto di Derrida con Artaud e, messa a contatto con la tesi lacaniana sulla psicosi paranoica, interpretata come forma «frammentaria, lacunosa, intermittente» della verità.

Le categorie dell’etica e della filosofia della storia vengono dunque sottoposte al reagente della psicoanalisi, il cui apparato concettuale non è mai inscritto in una dimensione esclusivamente soggettiva. Secondo la formula di Carmelo Colangelo, per Moroncini «il pensare non è riducibile alle prestazioni coscienziali del soggetto». Si inscrive invece in uno spazio del sapere che i suoi lavori dilatano, e dove trovano posto anche i temi del dono – letto nell’accostamento di Lacan a Marcel Mauss – e dello spazio – che una teoria del cosmopolitismo ricava dall’idea freudiana di psiche «estesa», attraversando la riflessione di Nancy. Se è psicoanalisi tout court quella che nella sede dell’insegnamento elabora e trasmette concetti, è filosofia tout court quella che non invade il territorio della cura, ma si unisce alla psicoanalisi in una comune invenzione aperta all’esperienza dell’alterità.