Il colpo di fulmine atteso per tutto il festival è arrivato l’ultima sera, davanti a pupille ormai stanche e a una disponibilità ridotta dalle tante visioni non sempre eccitanti. Lav Diaz, che pochi mesi fa, alla Berlinale, ha incantato il pubblico con il racconto epico della rivoluzione filippina per l’indipendenza (le otto ore di A Lullaby to the Sorrowful) ha scosso il Lido col suo nuovo The Woman Who Left, applaudito durate la proiezione stampa, ovazione alla fine, la sala rimasta piena per tutte le quattro ore, le voci che parlano di un possibile Leone. Potevano farlo vedere prima, è stato il commento di molti,per esempio nei giorni delle frenetiche visioni hollywoodiane che il calendario di Toronto ha imposto all’inizio.
Ma poco importa. Perché quello di Lav Diaz è un cinema che scompiglia l’immaginario, le sue pratiche e le sue gerarchie senza bisogno di trucchi, effetti speciali, giochetti, citazioni o postmodernità più o meno camuffate e in questo concorso è come un’epifania improvvisa, la presenza di un’immagine capace ancora di ricercare e di riflettere sul senso delle proprie immagini. Anche qui il regista ritorna sulla storia che attraversa tutte le narrazioni dei suo film, quella di un Paese, le Filippine, col loro bagaglio eterno di vessazioni e passività, colonialismi, assuefazione alla violenza, al potere, desideri di ribellione cancellati nel gesto solitario di una vendetta.

Horacia – la splendida attrice Choro Santos Cancio – è rimasta trent’anni in prigione con l’accusa di omicidio. Ma è innocente, anche se nessuno le ha mai creduto finché la sua migliore amica, anche lei in carcere per un altro delitto, confessa: ha ucciso lei quella persona per una manciata di denaro, abbastanza però per mangiare. A chiederglielo era stato il potente della zona, che voleva vendicarsi di Horacia «colpevole» di averlo respinto per sposare un altro uomo. La donna esce e prova a tornare a casa ma la sua vita di prima è perduta per sempre, il lavoro di maestra, il marito che è morto, la figlia allora bimbetta diventata donna, il figlio scomparso nel nulla. L’avevano condannata anche loro che per tutto quel tempo non sono mai andati a trovarla.

Tolstoj -l’ispirazione dichiarata è «Dio vede quasi tutto ma aspetta» – si confonde con le pagine di un romanzo d’appendice ma Diaz, e molto del cinema filippino dell’ultimo decennio, utilizza le strumentazione pop come un neo-sincretismo politico e poetico, che rovescia la cultura dei neocolonialismi stratificati nelle Filippine, nei suoi consumi e nell’organizzazione sociale e del pensiero. Il suo scopo non è cullare lo spettatore con la malintesa idea di un happy ending nel cui il Bene vince sul Male, anzi questa lotta non c’è affatto. Ciò che vive nelle strade buie di quel piccolo villaggio dove Horacia, prendendo diverse identità in contrasto tra loro cerca un mezzo per la sua vendetta è il conflitto altrettanto ambiguo di un riscatto impossibile.

Siamo nel 1997, la radio che fa da colonna sonora storica dice terrore, rapimenti che colpiscono i ricconi – i cinofilippini in particolare – mentre il mercato asiatico inizia a essere scosso da una grande crisi con l’incubo dell’espansione cinese dopo la riunificazione con Hong Kong. Spariscono anche ragazze che vengono trovate ammazzate, la regione più colpita è il Mindanao col quale è stato appena chiuso un accordo nel conflitto per l’indipendenza ma forse le fazioni sono ancora fuori controllo.

Horacia inizia a cercare suo figlio, di giorno dolcissima pia donna preoccupata degli altri che nasconde le braccia coi tatuaggi della galera. Di notte creatura senza passato né presente, che nei suoi vagabondaggi senza troppi sognatori, incontra una umanità marginale e disperata nell’impossibile lotta contro la miseria. I soldi, i soldi, i soldi, sono l’ossessione della giovane mendicante che in chiesa conosce tutti i posti dei potenti, e del gobbetto che vende le sue uova speciali, i balut – per farlo ci vuole un’arte, il grido deve essere giusto sennò non ci crede nessuno – rischiando aggressioni e botte. Poi c’è la bella Hollanda, un transessuale di cui non si sa nulla in cerca di morte, in fuga dal mondo e se fosse i figlio che Horacia cerca tanto? Speranze sogni, fantasie. E la violenza di ogni giorno, sempre uguale nella sopravvivenza. Quelle case che le ruspe butteranno già per non obbedire alla speculazione, le cui strade sono buie, e dove le case dei ricchi hanno guardie armate, mentre loro arroganti si permettono da uscire da soli sicuri che nessuno li toccherà, magari per comprare un balut, disegna la geografia di tutte le Filippine. Bianco e nero, molto notturno The Woman Who Left è anche l’omaggio più esplicito di Diaz a Lino Brocka, il regista filippino che aveva trasformato i melodrammi fiammeggianti in pericolosi pamphlet anti Marcos (morì in un incidente di auto) sui destini macinati da una Storia implacabile.

Chiesa, potere, corruzione, sopraffazione. L’universalità di un passato che si ripete uguale a sé stesso. La geografia di Diaz è molto precisa nel tracciare le traiettorie che seguono questo impossibile «riscatto»: le case blindate e la chiesa, il grande interlocutore, la garanzia del controllo sociale che utilizza la fede per la rassegnazione e per nutrire speranze. E poi? I potenti pregano alle 5 del mattino, quasi di nascosto ma con le loro donazioni si costruiscono chiese sempre più belle.

La macchina da presa di Lav Diaz rimane in quei vicoli, ne fruga il dramma e le illusioni attraverso il movimento dei personaggi che le abitano. Per lui il racconto del mondo a ogni film significa la ricerca di un’immagine, e di una narrazione che ne sappia catturare l’essenza. E anche quando, come in questo film, nel suo magnifico e crescente finale che si sposta da quel teatro tolstojano a Manila, la realtà irrompe nella grana dell’anonimato, i personaggi si confondono con le figure nelle strade della metropoli Manila che ne sono una specie di continuazione. I passi di Horacia nella sua ricerca impossibile continueranno a girare i tondo come i «destini» che hanno perduto il sentimento comune della rivolta.