Stavolta, giura, non c’è alcun alter ego: «Sono solo io». Nessuna «asexual Pollyanna», né androgine figure in latex, meno che mai la benzo queen warholiana dell’ultimo Daddy’s Home (2021). Se finora St. Vincent aveva fatto propria la lezione di Bowie identificando differenti periodi con altrettante dramatis personae, il nuovo All Born Screaming (Total Pleasure/Virgin Music) si candida da subito come l’album più personale di Annie Clark, il primo interamente autoprodotto dall’artista americana.

LE CUI MASCHERE collassano su se stesse, come sembra suggerire l’uso del verbo to crack up reiterato in Reckless, Broken Man e Big Time Nothing. Eppure, questo ritorno all’Io non coincide né con un’identificazione tra autore e voce narrante — ché i testi sembrano molto meno autobiografici di quelli dell’album precedente — né con una maggior concentrazione stilistica. Anzi, le dieci tracce dell’album coprono tutto lo spettro di quello che Annie definisce post-plague pop: dall’elettronica all’industrial, dal pop al grunge (anche per via della batteria di Dave Grohl su Broken Man e Flea) fino al reggae sbilenco di So Many Planets, senza mai sganciarsi dalla forma canzone né dal predominio della melodia. Non meno cangiante la sua stessa voce, mediata con lungo lavoro di ripresa e mix sin dalla traccia d’apertura Hell Is Near, per la quale sembra siano state necessarie «dozzine di take» per ottenere il timbro desiderato.

SE PROPRIO si vuole cercare un tratto comune, anche per semplice contrapposizione al glam rilucente di Daddy’s Home, esso va rintracciato nel carattere oscuro di buona parte del disco. Se avevamo definito quello un Blond Album, qui siamo certamente tendenti al nero. Ma al Thanatos di Reckless e Sweetest Fruit — dedicata alla collega scozzese Sophie, tragicamente scomparsa nel 2021 — si contrappone dappertutto un Eros musicale fatto di groove, sintetizzatori e chitarre suonate personalmente dall’autrice. Valgano, a titolo d’esempio, il funk industriale di Big Time Nothing, la sinuosità melodica di The Power’s Out (che di Bowie riprende il ritmo di Five Years) e i riff alla Joni Mitchell della title track conclusiva, nella cui coda Annie duetta con Cate Le Bon.
Tutti nasciamo urlando, ci ricorda St. Vincent definendosi «pantomime of a modern girl». Ma anche nei suoi momenti più oscuri non ha bisogno di urla e neppure di rinascite; almeno fino al prossimo Io.