Un vecchio amico ha scritto e pubblicato da poco un bel libro – del quale riparlerò – su una storia familiare nella storia della città di Trieste. Breve ma molto denso nella rievocazione di un passato ricco di conflitti e tragedie politiche e identitarie.
Mi ha colpito una considerazione finale: «Ne deriva, cari amici, che dobbiamo coltivare gelosamente le nostre memorie. A ognuno le sue…Non c’è nulla da condividere, e spiace veramente di far torto alle ragioni di chi si è inventato questa benedetta idea della “memoria condivisa”. Domani certo sarà un altro giorno. Ma domani qui da noi non è ancora arrivato». (Roberto Weber, L’uomo che parlava alle statue, Bottega Errante Edizioni, 2023).

Quel «qui da noi» riferito alla vicenda triestina lo leggo in modo assai più largo, sia pure per motivi in parte diversi. Largo quanto questa intera penisola, che puntualmente litiga e si divide in occasione della più fondativa delle sue ricorrenze nazionali, l’ormai vicinissimo 25 aprile.

Non tornerò sulle scandalose vicende della censura a Scurati, con l’offensivo messaggio della presidente del Consiglio, o delle querele governative a personaggi come Luciano Canfora. Ma va discussa seriamente la questione legata all’uso o alla rimozione della parola «antifascismo».

Le destre, nella migliore delle ipotesi, respingono il termine ribattezzando la scadenza come festa «della libertà». Nel mio moderatismo sono per non lasciar cadere questa asserita propensione liberale, se non libertaria, di chi resta attaccato nei fatti a una tradizione politica essenzialmente antidemocratica e violenta. Ma la parola libertà è molto difficile. Non ha un significato univoco. Quale libertà? Non solo per interrogarsi se liberi di o liberi da. Ma anche per vedere chi è davvero libero di fare e che cosa.

È fin troppo evidente che si scappa in una definizione così generica della libertà per non fare davvero i conti con l’evento storico della “liberazione” che è la sostanza del 25 aprile del ’45. Lo sostiene un altro libro piccolo e denso appena uscito per il Mulino: 25 aprile. La storia politica e civile di un giorno lungo ottant’anni. Lo storico Luca Baldissera ripercorre passo dopo passo le trasformazioni del modo di vivere questa ricorrenza dal dopoguerra agli anni del centrismo, alla recente vicenda della fine della cosiddetta “prima repubblica” e dell’avvento di un bipolarismo quantomeno assai incerto e mutevole.

Testo istruttivo per non dimenticare che non solo le destre di matrice fascista – «sdoganate» mentre si dissolveva il vecchio sistema politico dopo il crollo del muro e poi per la tempesta di tangentopoli – si sono impegnate di fatto per rimuovere il contenuto “antifascista” del 25 aprile.

Basta ricordare posizioni espresse dal socialista Bettino Craxi e da intellettuali come Lucio Colletti e Renzo De Felice, per esempio sull’anacronismo delle norme sul divieto di ricostituzione del partito fascista.
Eppure, cito ancora Baldissera, «si può forse dire che l’antifascismo costituzionale è stato per l’Italia qualcosa di analogo al repubblicanesimo per i francesi, una risorsa politica che ha garantito la tenuta dell’assetto democratico del paese».

Giusto dunque, come sollecita anche questo giornale, rilanciare per l’oggi la verità storica del 25 aprile. Credo che si debba anche ragionare sulla ricchezza plurale delle interpretazioni della ricorrenza anche all’interno di questa identità condivisa.
E soprattutto sulla necessità di aggiornare le culture e le pratiche politiche che hanno radici in una storia segnata da grandi ideali di giustizia e di libertà, ma anche dal tragico fallimento dei tentativi di affermarli.