Raccontare la felicità a bordo di una nave di soccorso. Questo è quello che mi ero prefisso di fare prima di imbarcarmi sulla Ocean Viking di SOS Mediterranee.  Era la prima volta che un’organizzazione umanitaria accettava di far salire a bordo uno “YouTuber” per raccontare con un altro linguaggio la vita di chi salva e chi viene salvato in mare. Purtroppo, la storia che racconterò nei miei reportage sarà ben diversa. Non c’è nessun naufrago portato in salvo sulla nave, le 100 persone che volevamo salvare, sono tutte morte.

La Ocean Viking ha iniziato la sua dodicesima missione a metà aprile, dopo una quarantena a scopo precauzionale. Giusto il tempo di addestrare l’equipaggio e insegnare a tutti alcune fondamentali manovre salvavita. Poi è partita per il Mediterraneo Centrale, schivando il brutto tempo.

Martedì sera è arrivata la prima allerta, da Alarm Phone. Una barca di legno a dodici ore di distanza, quasi verso il confine con la Tunisia. Quaranta persone in pericolo, cercate per tutto il giorno, senza ricevere posizioni aggiornate. Un soccorso quasi impossibile da portare a termine senza informazioni.

Nel frattempo arrivano altre due segnalazioni da Alarm Phone: due gommoni partiti da Al Khums nel pomeriggio si trovano al largo e il tempo sta velocemente peggiorando. Si tratta di tornare a est a tutta velocità, navigando per almeno dieci ore.

Luisa Albera, la coordinatrice dei soccorsi sulla Ocean Viking, deve prendere velocemente una decisione, interrompendo le ricerche della barca di legno. Ad oggi non abbiamo notizie di quelle quaranta persone, possiamo solo augurarci il meglio: che siano tornare a terra o che si siano messe in salvo.

Durante il viaggio verso est riceviamo la notizia che uno dei gommoni è stato intercettato dalla guardia costiera libica e riportato a terra. Più avanti riceviamo le immagini dello sbarco, gravato dalla morte di una donna e di un bambino.

Si fa velocemente notte, e il tempo peggiora. La Ocean Viking normalmente cerca di schivare il mal tempo, ma questa volta si getta nelle onde e sceglie la via più veloce.

Arrivano due “mayday”, le richieste di soccorso sul canale di emergenza. Riportano le coordinate aggiornate del secondo gommone, probabilmente prese da un aereo che comunque non si identifica.

Le onde salgono, fino a sei metri, e il vento è quello di una bufera, stacca le insegne dal ponte di comando e lacera le bandiere. Ho il mal di mare, ma non sono il solo, anche altri soccorritori girano pallidi per i corridoi e prendono pillole. Le condizioni di questo soccorso sono eccezionali, sul ponte tutti si preparano al peggio. Impossibile anche solo pensare di mettere in acqua le lance di soccorso. Alle prime luci dell’alba il ponte viene attrezzato per un eventuale recupero direttamente dalla nave. Normalmente, spiegano i soccorritori, è un approccio da evitare, aumenta i rischi per chi viene ripescato in acqua, ma questa volta non ci sono alternative.

Il sole sorge, ci sono altre tre navi mercantili. Inizia un coordinamento informale via radio, i quattro equipaggi si dividono il mare in zone di ricerca, come succede con i vigili del fuoco quando c’è una persona scomparsa, ma più in grande, qui si parla di chilometri e chilometri quadrati di mare aperto.
Dalla Ocean Viking chiedono a Frontex il supporto di un aereo, queste ricerche funzionano meglio dall’alto. Alarm Phone ha fatto sapere che la Libia non parteciperà, il meteo non lo permette.

Le ricerche vanno avanti fino al pomeriggio, i soccorritori possono solo usare il binocolo ma devono legarsi per sicurezza, il vento sposta di peso le persone. Gli spruzzi di mare salgono fino al ponte di comando, di tanto in tanto occorre rientrare e asciugare gli strumenti.
Una delle navi che collabora all’impresa, la My Rose, avvista per prima tre corpi in acqua. Dopo pochissimo, l’aereo di Frontex localizza i resti del gommone. Noi siamo a dodici miglia, circa un’ora di navigazione. L’atmosfera a bordo si taglia con il coltello. Tutti si preparano a salire sui gommoni. Da un magazzino spuntano tute gialle per il recupero dei cadaveri. E buste, le famigerate body-bag. Ce ne sono per adulti, e per bambini. Una soccorritrice mi chiede se sarà all’altezza, quei tre cadaveri pesano come un macigno e sono in tutte le conversazioni.

Arriviamo all’altezza del gommone. Sono brandelli, frammenti. Due tubolari parzialmente affondati, tenuti assieme da una plastica che dopo poco si lacera. Tutto l’equipaggio punta occhi e telecamere su quelle rimanenze. Non ci sono corpi intrappolati. Irrazionale sollievo, presto interrotto dal panorama circostante. Dal ponte avvistano due giubbotti galleggianti. Sono gialli, fosforescenti, mi dicono di pessima qualità. Alla radio chiamano Luisa, le dicono di correre dall’altro lato della nave. Con lei il fotografo. Siamo in mezzo ai corpi, ne contiamo dieci, tredici. Da quel che vedo sono tutti uomini, adulti, giovani e gonfi. L’infermiere mi spiega che devono essere in acqua da parecchio tempo.

Quelli che vediamo affiorare sono i fortunati che avevano un galleggiante. A volte improvvisato, come la camera d’aria che circonda le spalle di un ragazzo vestito di blu. All’appello manca la maggioranza, quella senza giubbotti, quella che è già scivolata in mare.

Dovevo testimoniare la felicità, e qui non ce n’è traccia. Guardo i soccorritori intorno a me, sono ammutoliti nelle loro tute da lavoro, sembrano gusci vuoti. Più tardi si siedono in cerchio nella stanza delle riunioni, e fanno un minuto di silenzio. Luisa dice loro che il meteo continuerà ad essere brutto, e chiede ad ognuno se se la sente di continuare. Dobbiamo pensare ai vivi, alla possibilità di salvare altre vite, che dall’inizio della missione sono state oltre trentadue mila. Tutti sono d’accordo,  e rimettiamo la prua contro il vento, con una storia bruciante da raccontare, alla ricerca di altre persone da salvare.