Come si può negoziare una tregua dichiarando che non varrà nulla? Bisognerebbe chiederlo al premier israeliano Netanyahu che ieri, mentre da Washington a Bruxelles cercavano di spingere Hamas a firmare gli accordi del Cairo, ha dichiarato: «L’idea di porre fine alla guerra prima di raggiungere tutti i nostri obiettivi è inaccettabile. Noi entreremo a Rafah e annienteremo tutti i battaglioni di Hamas presenti lì, con o senza un accordo, per ottenere la vittoria totale».

Parole che non lasciano adito a dubbi sulle intenzioni di Tel Aviv rispetto alla guerra in corso a Gaza ma che potrebbero celare un secondo fine. Da un lato potrebbero essere il modo per tenere a bada le frange più estremiste della coalizione di governo, a partire dal leader di Potere ebraico, Itamar Ben-Gvir, passando per il ministro delle finanze, Bezalel Smotrich, che ieri ha biasimato il suo governo, reo di condurre «trattative con coloro che non dovrebbero più esistere». Smotrich ha anche affermato che «non può esserci un lavoro finito a metà» e che per «Rafah, Dir al-Balah, Nuseirat» serve «annientamento totale».

DALL’ALTRO sarebbero la scusa perfetta per portare avanti l’offensiva in ogni caso se il tavolo saltasse. Tel Aviv ha già fatto sapere che «renderà pubblica la sua decisione una volta che Hamas avrà fornito la sua risposta», in ogni caso «non oltre mercoledì sera». Il fatto, per ora, è che la proposta di accordo c’è stata. Tra i redattori della bozza figura anche Israele che però, paradossalmente, non l’ha ancora accettata. Come Hamas, del resto.

Spiega il Wall Street Journal, citando funzionari egiziani: «La proposta prevede due fasi: la prima comporterebbe il rilascio di almeno 20 ostaggi nell’arco di tre settimane in cambio di un numero imprecisato di prigionieri palestinesi. La durata della prima fase potrebbe poi essere estesa di un giorno per ogni ostaggio liberato».

La seconda fase, invece, «comprenderebbe un cessate il fuoco di dieci settimane durante il quale Hamas e Israele si accorderebbero su un rilascio di ostaggi più ampio e su una pausa prolungata dei combattimenti che potrebbe durare fino a un anno».

Il segretario di stato Usa, Antony Blinken, in Medio Oriente per il suo settimo tour diplomatico dall’inizio dell’offensiva israeliana, lunedì aveva dichiarato che Hamas «ha davanti a sé una proposta straordinariamente generosa» e l’aveva invitato a decidere in fretta. Hamas ha subito risposto: «Quando si ferma un crimine non si può affermare che sia un’azione generosa da parte israeliana».

Hamas in un primo momento aveva definito la proposta egiziana «la migliore degli ultimi mesi». Tuttavia, dopo l’ottimismo delle prime ore, ha lamentato la mancanza di un’agenda chiara per la fine della guerra. Non un cessate il fuoco temporaneo (seppur lungo), ma la fine delle ostilità.

DI NUOVO, potrebbe trattarsi solo di un altro colpo della guerra mediatica tra Hamas e Israele, ma ciò che è certo è che senza ostaggi Hamas avrà molta meno forza negoziale e quindi cerca di ottenere il massimo ora che le discussioni sono ancora aperte. E, infatti, subito dopo ha accusato Israele di «scarsa serietà rispetto alla seconda fase prevista dall’accordo». Secondo diverse fonti di Tel Aviv, se l’accordo dovesse saltare «l’offensiva su Rafah scatterà entro pochi giorni».

Intanto le indiscrezioni sull’emissione di un mandato d’arresto da parte della Corte penale internazionale dell’Aja per Netanyahu preoccupano il governo di Tel Aviv. Ynet riporta di una riunione d’emergenza del gabinetto di governo sul tema «su iniziativa del primo ministro». Il quale ha dichiarato che «nessuna decisione della Cpi fermerà la volontà d’acciaio di Israele di raggiungere gli obiettivi nella guerra contro Hamas».

Il portavoce della Casa bianca ha dichiarato che gli Usa «non sono favorevoli» all’indagine poiché «crediamo che la Cpi non sia competente» in materia. Né Israele né gli Usa riconoscono la Corte. Si muove anche Pechino. Il portavoce del ministero degli esteri cinese ha fatto sapere che alcuni rappresentanti di Hamas e Fatah si sono incontrati su invito del governo per promuovere «la riconciliazione intra-palestinese».