Il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha deciso di ripristinare il cessate il fuoco con il Nuovo esercito del popolo (Npa), braccio armato del Partito comunista (Cpp). In vista dei colloqui di pace, che si apriranno la settimana prossima in Norvegia, sono in libertà provvisoria il presidente e il segretario generale del Partito comunista filippino, che potranno partecipare alle trattative. I colloqui di pace con l’Npa, che esiste dalla fine degli anni ’60, si erano bloccati nel 2012, quando l’allora presidente Benigno Aquino aveva rifiutato di liberare i prigionieri politici. Lo scorso 25 luglio, Duterte aveva annunciato un cessate il fuoco unilaterale, ma lo aveva annullato sei giorni dopo, a seguito di un’azione armata dei comunisti. Ne abbiamo parlato con padre Aris Miranda, direttore esecutivo dell’organizzazione umanitaria Camillian Disaster Service International (Cadis), un’organizzazione cattolica che fa parte dell’International Coalition for Human Rights in the Philippines (Ichrp) e di Umangat Migrante, che si occupa dei diritti dei migranti.

Come valuta l’atteggiamento di Duterte?
Da anni appoggiamo il Cpp, costretto alla clandestinità e incluso dagli Usa nella lista delle organizzazioni terroriste. Già il 25 luglio, all’annuncio del cessate il fuoco, dall’Olanda ha subito dato il suo assenso il nostro compagno, il professor Jose Maria Sison, fondatore del Cpp e responsabile del Fronte nazionale democratico delle Filippine (Ndfp). Ora inizieranno in Norvegia le trattative di pace. Un percorso già tentato dal governo precedente, ma fallito per il rifiuto di liberare i prigionieri politici e di perseguire obiettivi diversi da quelli della semplice resa unilaterale dei comunisti.

E perché questa volta dovrebbe funzionare? Il profilo del nuovo presidente è quello di un politico da “tolleranza zero”.
E’ vero. Durante la campagna elettorale ha parlato di ripristinare la pena di morte, di eliminare criminali e narcotrafficanti in sei mesi e, da quando è stato eletto, la polizia ne ha già uccisi 1.700. La chiesa è preoccupata, ma c’è da dire che – anche in un paese cattolico all’86% come il nostro – la maggioranza vuole la pena di morte per i narcotrafficanti, e ha richiesto a gran voce un uomo forte come Duterte. Negli oltre vent’anni in cui è stato sindaco, Duterte ha fatto di Davao, una grande città del sud, un luogo in cui si può girare tranquilli di notte e in cui c’è lavoro, le attività commerciali sono molto sviluppate, e Davao è stata premiata più volte come la città più sicura dell’Asia. Non voleva candidarsi, ma adesso pensiamo tutti che possa dare una nuova possibilità al paese. Naturalmente, io penso che quello della droga o dell’insicurezza sia un effetto, e che occorra risolvere le cause alla radice. Il narcotraffico è una conseguenza di problemi strutturali. Abbiamo vissuto la feroce dittatura di Marcos, imposta dagli Stati uniti, e non vogliamo tornare indietro. Poi abbiamo anche eletto una presidente donna, sperando che le cose potessero cambiare, ma così non è stato. Quella dittatura ha solo cambiato forma. Da allora è esercitata dalle grandi multinazionali Usa, canadesi, britanniche, che depredano le nostre risorse senza garantire benessere alla stragrande maggioranza della popolazione. Duterte non è ricco, è un avvocato del sud che proviene dalla classe media e non da quell’oligarchia che tiene in pugno da sempre il paese. Per la prima volta il suo governo ha messo cinque membri del Partito comunista a dirigere i settori più sensibili: dal Dipartimento di programma agrario, dove c’è un leader del Partito comunista che da sempre si batte per una riforma agraria, al ministero del Lavoro e del Welfare. Duterte ha parlato di controllo delle risorse minerarie, siamo il paese dell’Asia più ricco di minerali ma non ne siamo padroni. Ha detto che vuole un governo di pace e riconciliazione, è la prima volta, finora i governi hanno protetto gli interessi dei pochi, dobbiamo dargli una possibilità…

Di che si occupa la Camillian Disaster?
Lavoriamo nel campo della salute e dei disastri, che non sono mai soltanto “naturali”, soprattutto nel sud. Le grandi imprese estrattive hanno molte responsabilità. La mia congregazione è stata fondata da Camillo De Lellis, il “santo degli infermi”. Quello dell’accesso alla salute è un problema drammatico nel mio paese. I poveri – la stragrande maggioranza – non possono curarsi. La sanità è privata, la copertura sociale è minima, nei grandi ospedali i servizi sono privati. La maggioranza della popolazione è composta da contadini poveri, che non ricevono sussidi e producono a malapena di che sopravvivere. Il primo obiettivo sarebbe quello di una riforma agraria. I contadini lavorano un pezzo di terra che non gli appartiene, lo stato non li aiuta e non ha modernizzato l’attività agricola. La terra è monopolio di pochi latifondisti che posseggono le piantagioni di ananas o banana e mettono in campo governi che difendono i loro interessi. Il grande problema, da noi, è l’accesso ai diritti basici e l’assenza di un lavoro garantito. La scuola è gratis fino alle medie, poi bisogna pagare. Tuttavia, guardando il livello d’istruzione di chi emigra, vediamo che tra il 20 e il 30% si tratta di professionisti, medici o infermieri che in Italia lavorano come badanti o domestici. La nostra organizzazione si occupa anche di organizzare i migranti a livello internazionale, sia nei paesi di destinazione che nelle Filippine.

In base ai dati di Umangat, quanti sono i filippini in Italia?
Secondo l’ultimo censimento, quelli regolari sono quasi 180.000, ma secondo i nostri dati sono quasi 240.000, quasi la metà è senza documenti, non perché sia entrata illegalmente, ma perché non ha potuto rinnovare il permesso di soggiorno con un lavoro dichiarato. Quasi tutti vorrebbero rientrare, lasciare la famiglia ha un costo sociale elevato, ma nel paese non ci sono possibilità. La maggioranza dei filippini lavora nei paesi del Medioriente, in condizioni terribili e in molti ogni settimana tornano a casa in una bara. In Arabia Saudita, circa 4.000 lavoratori stanno protestando perché da 5 mesi non vengono pagati, e non vogliono tornare a casa senza i loro soldi. Spesso i migranti pensano a lavorare, a mandare i soldi a casa ma non s’interrogano sul perché nel loro paese non ci sia lavoro e benessere nonostante il territorio sia pieno di risorse. I nostri ingegneri se ne vanno a costruire le torri di Dubai.

E ora Duterte vuole importare i medici cubani…
Ha detto che vuole istituire un sistema di formazione sanitario come quello di Cuba, che invia i medici nei paesi più poveri, che vuole fare un accordo con l’Avana. Quando ero direttore di un ospedale nel sud del paese – una zona molto povera – ho visto che i nostri medici non volevano rimanere, preferivano andare nelle grandi città dove venivano pagati di più o emigrare negli Usa. Preferivano prendere una seconda laurea in scienze infermieristiche perché negli Usa c’è richiesta di infermieri. Nessuno voleva rimanere lì, assicurare un servizio decente alla popolazione povera era un’impresa impossibile.