Perché sia garantita la regolarità della campagna elettorale per il referendum costituzionale, i due presidenti del comitato per il No – i costituzionalisti Alessandro Pace e Gustavo Zagrebelsky (onorario) – scrivono al presidente della Repubblica. Che mercoledì scorsa nel «discorso dei pokemon» aveva raccomandato un confronto nel merito della riforma «affinché l’elettorato si esprima con piena consapevolezza». Difficile che sia possibile senza un minimo di equilibrio nell’informazione televisiva.

Le cose sono andate male durante la raccolta delle firme, e rischiano di andare peggio adesso che i sostenitori del No non sono riusciti a raggiungere le 500mila sottoscrizioni previste per la richiesta popolare di referendum. «Il pur ragguardevole numero di 360mila firme – ricordano Pace e Zagrebelsky a Sergio Mattarella – è stato raggiunto nel silenzio pressoché totale dei maggiori organi di stampa e totale delle televisioni, a iniziare da quelle del servizio pubblico. Per contro il comitato del Sì ha goduto di una copertura mediatica senza limiti e senza riguardo per un minimamente accettabile equilibrio informativo». Adesso, senza le firme necessarie, il comitato del No non avrà diritto a una presenza televisiva tra i promotori (come previsto all’articolo 3a dei regolamenti della Vigilanza in occasione dei referendum popolari) ma dovrà accontentarsi di comparire come «associazione di rilevanza nazionale» (3c) o di chiedere ospitalità ai partiti schierati per il No.

Gli ultimi dati disponibili sulle presenze tv dei sostenitori del Sì e del No sono ancora quelli di giugno, sollecitati proprio da una lettera all’Agcom di Pace e faticosamente ottenuti dalla commissione parlamentare di Vigilanza. Testimoniano uno squilibrio nel «tempo di parola» (l’audio dei politici), 40% per il No e 60% per il Sì, addirittura dilagante nel «tempo di notizia (quello in cui parla il giornalista): 78,5% per il Sì e 21,5% per il No. I due autori della lettera di ieri, Pace e Zagrebelsky, raccolgono insieme appena due minuti di presenza nei Tg Rai, contro le oltre sette ore di Renzi. Indubbiamente Renzi è un paragone troppo alto, si possono però vedere le presenze della ministra per riforme Boschi e dell’ex presidente Napolitano, due campioni del Sì: il loro tempo insieme è di oltre due ore. Anche dati più recenti, gli ultimi pubblicati dall’Agcom a metà luglio divisi per partiti e figure istituzionali, dimostrano che la situazione non è cambiata: nei tg Rai il governo e il Pd da soli hanno preso il 51% del tempo di antenna, il 42,6 nei Tg Mediaset, il 56% su Sky e il 57,3% nei Tg di La7.

«Ci rivolgiamo a Lei quale garante dei diritti costituzionali e politici di tutti i cittadini», scrivono Pace e Zagrebelsky a Mattarella, sostenendo che «se si dovessero riprodurre le distorsioni che abbiamo finora constatato, il confronto non potrebbe dirsi onesto. Per questo Le chiediamo di far valere, secondo ciò che riterrà opportuno ed efficace, la sua autorità super partes per garantire la parità tra le posizioni». Spedita la lettera, che ricalca una mozione approvata dall’assemblea del 16 luglio, il sentimento che si raccoglie tra i rappresentanti del Comitato del No non è di grande attesa per una presa di posizione del presidente della Repubblica. La linea della maggioranza di governo, di fronte a queste argomentazioni, è che fino a quando non sarà indetto il referendum non c’è campagna elettorale. Né, di conseguenza, obbligo di par condicio. Più o meno quanto sostenuto dall’Agcom in risposta alle prime sollecitazioni di Pace, anche se l’autorità aveva «raccomandato» alle tv un’informazione «imparziale e completa» sul referendum.

A Mattarella gli esponenti del No guardano anche per quanto riguarda la data del referendum. Il presidente ha appena sostenuto – nel discorso dei pokemon – che fino a quando l’ufficio centrale della Cassazione non si pronuncerà sull’ultima richiesta di referendum ancora pendente, quella voluta da Renzi e sostenuta dalle firme per il Sì, la procedura non può partire. Il prossimo 4 agosto, però, la Cassazione tornerà a riunirsi e tra i giudici si starebbe facendo strada la tesi che avendo già ammesso la richiesta di referendum presentata dai parlamentari (per il Sì e per il No) il 6 maggio, non ci sarebbe bisogno di verificare le firme. Il che potrebbe evitare scoperte imbarazzanti. Se la decisione dovesse arrivare giovedì prossimo, Renzi potrebbe convocare il consiglio dei ministri che deve indire il referendum (tra i 50 e i 70 giorni dalla deliberazione) anche immediatamente. Tenendo così fede a quello che ha detto fin qui: fare il referendum ai primi di ottobre. Oppure potrebbe far passare invano i due mesi che gli concede la legge, rinviando il referendum a fine novembre, in omaggio alla nuova strategia che punta a far precedere la consultazione dalla legge di stabilità. Sperando così di recuperare con qualche mancia elettorale i consensi in caduta. L’ultima parola e dunque la vigilanza su questo gioco di convenienze spetta al capo dello stato. La firma sul decreto di convocazione delle urne deve essere la sua.